Enrico Celio: avvocato, politico e gentiluomo

Enrico Celio nacque ad Ambrì nel 1889. Il padre - Emilio - di origine contadina, era ispettore scolastico onorario (come si usava allora per non gravare l’erario pubblico). La madre, Maria nata Danzi, di Mascengo, era sorella del parroco di Quinto di allora. Dopo le elementari, la famiglia, molto religiosa, mandò il ragazzo in collegio dai Salesiani, a Balerna poi a Maroggia. Il giovane proseguì quindi la sua formazione dai Benedettini ad Einsiedeln, poi all’università di Friborgo, dove sotto la guida del prof. Paolo Arcari ottenne la laurea in lettere. Tornato nel Cantone, nel 1913 fu eletto deputato conservatore in Gran Consiglio. Un paio d’anni dopo entrò nella redazione del «Popolo e Libertà», quotidiano del partito, di cui nel 1918 divenne direttore. Nel 1921 tornò a Friborgo e a Firenze, per studiare diritto. Sposata la bernese Elsy Grolimund, conseguì poi la patente di avvocato e notaio, aprendo uno studio legale a Biasca - borgo che più tardi gli conferirà la cittadinanza onoraria - divenendo anche vicesindaco e consulente di società elettriche. Per brevi periodi (1924-25, 1927-28 e 1930-32) fu inoltre consigliere nazionale, carica allora poco considerata, che gli eletti lasciavano facilmente ai subentranti.
In Gran Consiglio
Nell’estate del 1932, mentre era presidente del Gran Consiglio, «Richino» (nomignolo famigliare con il quale da giovane amava firmarsi) successe in Consiglio di Stato a Giuseppe Cattori, «grande capo» dei conservatori deceduto da poco, il quale col socialista Canevascini aveva dato origine al Governo di paese (per gli avversari «pateracchio»). Ma la dirigenza conservatrice inclinava ormai per una svolta a destra, tanto più che l’altro suo rappresentante in governo - il luganese Angiolo Martignoni, in rapporti epistolari perfino con Mussolini (benché allora nessuno lo sapesse) - avversava la politica del Cattori.
Dal predecessore, «eredita» la direzione del Dipartimento della Pubblica Educazione e di Polizia. Come tale promuove la legge sull’ordine pubblico, contestata dai fascisti nostrani con la famosa marcia su Bellinzona del gennaio 1934. Avversario del fascismo, egli si era già dimostrato nel 1930, entrando nel collegio di difesa del famoso processo Bassanesi. Buon oratore, dalla voce suadente e gradevole, non poté tuttavia evitare la svolta a destra del suo partito, che avrebbe dato il via, con i liberali «unificati» (tra cui il convallerano Emilio Forni) al cosiddetto Governo dell’Era nuova, che relegava Canevascini ad un ruolo marginale. E «Richino», per qualche anno, lo sostituì pure alla presidenza della CORSI.
Il periodo bernese
Nel gennaio del 1940 moriva il consigliere federale Giuseppe Motta - sul quale Celio scriverà pagine di grande ammirazione - in carica da quasi trent’anni, e responsabile della politica estera da venti. Per la successione, incontestato il diritto dei conservatori a mantenere il seggio, l’elezione di un ticinese appariva indispensabile - erano gli anni della Seconda guerra mondiale! - per ragioni di unità nazionale. Scartati altri candidati, tra cui l’avv. Riccardo Rossi e il col. Ruggero Dollfuss (al quale si rimproverava di essere di origine bernese, e per giunta protestante), i conservatori ticinesi scelsero, un po’ a sorpresa, appunto Enrico Celio. I liberali, invero, ne furono contrariati, poiché in vista della prossima successione al cons. fed. Obrecht, speravano di tenere il seggio ticinese «in caldo» per un loro esponente (si parlava del consigliere agli Stati Arnaldo Bolla). Celio, grazie all’appoggio dell’influente capo della frazione conservatrice alla Camere, il lucernese Heinrich Walther, è comunque eletto il 22 febbraio (guarda caso, quarant’anni esatti prima della morte), battendo il vallesano Maurice Troillet, il friburghese Pierre Aeby, e... l’immancabile Canevascini (con il quale, a dispetto delle rivalità ricordate, era comunque in buoni rapporti). Entrato in carica, non ricevette però il Dipartimento di Motta (che fu assegnato al vodese Pilet-Golaz), ma quello delle Poste e Ferrovie («antenato» dell’attuale DATEC, lasciato libero appunto dal Pilet): forse il meno adatto a lui.
Come consigliere federale non brillò. Pur occupandosi onestamente dei problemi di pertinenza del suo Dipartimento (legge sulle ferrovie, forze idriche, sviluppo dell’aviazione civile e del turismo «interno»...) non conseguì risultati spettacolari. Alcuni contemporanei, come i leader socialisti Bringolf e Weber o il fondatore della Migros Duttweiler, ne danno un giudizio positivo, specie per la sua apertura ai rifugiati. Altri non nascondono invece le loro riserve, come lo storico Heinz Bütler che lo liquida sbrigativamente: «Er war nie eine grosse Figur». Il giornalista Pierre Grellet, ne evidenzia per contro la gentilezza e il suo «esprit d’artiste, poète et musicier, fort agréable; devenu magistrat presau’en faisant violence à ses goûts». Anche il giornalista ticinese, Mario Casanova, ne sottolinea l’affabilità con persone di ogni ceto, ricordando che spesso accompagnava la moglie a fare le spese al mercato.
Inviato a Roma
Al momento delle sue dimissioni, nel 1950, Il quotidiano bernese «Der Bund» lo definisce il più liberale dei consiglieri federali. A sostituirlo nell’Esecutivo federale sarà il vallesano Escher, che supera ampiamente il ticinese Franco Maspoli. Richino è allora nominato «plenipotenziario» a Roma (posto già occupato un secolo prima da un altro ex consigliere federale: G.B. Pioda), impegnandosi a rafforzare i legami con la nuova Italia. Terminata nel 1956 la permanenza nella capitale italiana, Enrico Celio tornò in Ticino, assumendo la presidenza della Società ticinese di belle arti e del Sanatorio di Medoscio, e alternando i mesi estivi ad Ambrì con quelli invernali a Lugano. Personalmente lo ricordo bene: un anziano signore cortese, un po’ appesantito dall’età (mentre da giovane pare fosse magrissimo), dall’eleganza un po’ «démodée» che amava fare lunghe passeggiate in compagnia della moglie, con in mano un bastone dal pommello d’oro e al guinzaglio un cane bulldog.