Musica

Eurovision e Israele, la genesi di una polemica senza fine

L'evento sarà ricordato, a prescindere dalla gara che si svolgerà dal 7 all’11 maggio a Malmö, per le contestazioni allo Stato ebraico da parte di media, politici, cantanti e di una parte del pubblico
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Stefano Olivari
01.04.2024 06:00

Il prossimo Eurovision Song Contest sarà ricordato, a prescindere dalla gara che si svolgerà dal 7 all’11 maggio a Malmö, per le contestazioni a Israele da parte di media, politici, cantanti e di una parte del pubblico. Tanto a criticare Israele si rischia poco, o comunque meno che a criticare i fondamentalisti islamici. In ogni caso ci andrà di mezzo l’incolpevole Eden Golan, facile bersaglio visto che oltre ad essere israeliana ha avuto anche la ‘colpa’ di crescere in Russia, dove i suoi si erano trasferiti quando lei aveva 5 anni e da dove se ne è andata per i sempre più frequenti episodi di antisemitismo. Ma cosa succederà nella prossima edizione di quello che per noi sarà per sempre l’Eurofestival?

Malmö 2024

Intanto la Golan cambierà canzone, visto che la prevista October Rain violerebbe, secondo l’EBU (l’Unione Europea di Radiodiffusione, cioè gli organizzatori), le regole sulla neutralità politica della manifestazione. In realtà i riferimenti alle vittime degli attacchi di Hamas dello scorso 7 ottobre erano piuttosto vaghi, senza nomi: chi può avere paura di versi come ‘Erano tutti bravi bambini’?’ Così su sollecitazione di Herzog la tivù di stato israeliana ha fatto scattare il piano B: stessa musica (autori Keren Peles e Avi Ohavion), ma testo diverso, cambiando anche il titolo. Adesso dopo l’intervento del presidente israeliano la canzone si chiamerà Hurricane e racconterà di fatti privati, non politici. Il sorteggio del 30 gennaio ha collocato Israele nella seconda semifinale, quella di giovedì 9 maggio dove è in gara anche la Svizzera con Nemo. Su 16 Paesi ne passeranno in finale 10, per raggiungere i 10 qualificati della prima semifinale, la Svezia e i 5 grandi, come bacino di utenza televisivo: Germania, Regno Unito, Spagna, Francia e l’Italia di Angelina Mango, fresca trionfatrice a Sanremo. La realpolitik potrebbe consigliare di non far andare Eden Golan in finale.

Russia-Ucraina

L’Eurovision Song Contest è sempre stato un prodotto patinato da un lato, ma dall’altro anche il teatro per messaggi politici di ogni tipo. Non è scontato parlare di Russia e Ucraina, perché per tanti anni (la Russia partecipa dal 1994, l’Ucraina dal 2003) i due Paesi sono stati molto legati e si sono di fatto scambiati i voti, sostenendo i rispettivi cantanti. Una sorta di fratellanza che si vede anche per i Paesi scandinavi e per quelli dell’Europa dell’Est, molto meno per quelli mediterranei, con l’eccezione di Grecia-Cipro, al di là del fatto che l’Italia (e quindi la RAI) abbia spesso tifato contro il proprio rappresentante in modo da non essere costretta ad organizzare l’edizione successiva. Il primo vero scontro nel 2016, quindi con l’annessione della Crimea da parte della Russia già avvenuta, quando l’ucraina Jamala vinse la gara con una canzone, 1944, che ricordava la deportazione dei tatari di Crimea da parte dell’Unione Sovietica. Certo era URSS e non Russia, ma a Mosca non la presero bene. Nel 2017 altro caso, con l’Ucraina Paese organizzatrice e la russa Julija Samojlova alla quale fu di fatto impedito di esibirsi, nonostante l’EBU avesse tentato di trovare una mediazione. Il pretesto era stato un’esibizione in Crimea della cantante russa in sedia a rotelle. Poi Israele c’entra sempre perché nel 2019 a Tel Aviv l’Ucraina ritirò la sua Maruv, ritenuta (semplifichiamo una vicenda infinita, che divise i cantanti locali) filorussa. Poi dal 2022, l’edizione vinta dall’ucraina Kalush Orchestra con una votazione più politicizzata che mai, la Russia è stata esclusa dagli organizzatori ed è improbabile che rientri presto.

Storie infinite

Un’altra storia infinita con l’Eurofestival come pretesto è quella fra Armenia, in gara dal 2006, e Azerbaigian, dal 2008. Il tema dei temi è stato ovviamente il Nagorno-Karabakh, comparso nel video della presentazione armena del 2009, con la televisione azera a censurare l’esibizione seguente. Nel 2012 gli armeni, in seguito a minacce, si rifiutarono di partecipare all’edizione organizzata proprio a Baku visto che nel 2011 avevano vinto gli azeri Eli & Nikki. Nel 2015 creò polemiche la canzone armena sul genocidio subito dal proprio popolo, nel 2016 l’armena Iveta Mukuchyan si attirò l’odio dei media azeri mettendosi a sventolare la bandiera del Nagorno-Karabakh. Nel 2009 l’EBU rifiutò la canzone georgiana perché troppo critica nei confronti di Putin, ai tempi evidentemente non così antipatico ai principali Paesi europei. Ma i casi politici all’Eurovision Song Contest non sono stati generati soltanto da guerre e storie antiche: nel 2014 sembrava esistesse soltanto Conchita Wurst, la drag queen austriaca che vinse a Copenhagen scatenando le critiche di quasi tutti i Paesi dell’Est e della Turchia. E in Belgio ogni anno è oggetto di polemiche, come le convocazioni della nazionale, la scelta di un testo in fiammingo o in francese, che spesso si trasforma in una non scelta, usando entrambe le lingue oppure un prudente inglese. 

Israele

Paradossalmente uno dei Paesi che all’Eurovision è sempre stato abbastanza lontano dalle polemiche è proprio Israele. Che partecipa alla manifestazione dal 1973, primo Paese non europeo a farlo, e che ha anche ottenuto quattro vittorie, proponendo quasi sempre il meglio della propria musica pop, ormai quasi totalmente in inglese, e non le seconde linee come ad esempio la Gran Bretagna: memorabili la Ofra Haza del 1993 e la Noa del 2009. Tre volte, due a Gerusalemme (con ritiro polemico della Turchia) e una a Tel Aviv, le organizzazioni in casa. Quella di Tel Aviv, nel 1999, fu merito della vittoria di Dana International, nata proprio a Tel Aviv e primo transessuale a vincere l’Eurofestival. In mezzo tre mancate partecipazioni, non per protesta ma perché la gara coincideva con lo Yom HaZikaron, il giorno del ricordo dell’Olocausto. Storie vecchie? Nemmeno tanto. A volte siamo noi spettatori a dimenticare che dietro l’organizzazione precisa al secondo e l’overdose di trash ci sono tanti popoli che non considerano la guerra una cosa da libri o da film.