Federico Fellini, artigiano della fantasia

In questo difficile 2020 è caduto un centenario che avrebbe meritato certamente di più. Ma questo non ci impedisce di celebrarlo ognuno a proprio modo. In questi giorni la Festa del Cinema di Roma fa un omaggio a lui, all’uomo che è diventato per tutti non solo un regista di culto, ma un aggettivo: Federico Fellini. Nasceva cento anni fa, e ora escono due cose: un bel documentario su di lui, e un cortometraggio di circa 12 minuti, La Fellinette, girato dalla nipote. Il documentario, firmato da Silvia Giulietti, si intitola: Fellinopolis e di fatto si poggia sul lavoro di backstage girato da Ferruccio Castronuovo sugli ultimi set di Fellini: Casanova, La città delle donne, E la nave va, Ginger e Fred. Fu un caso davvero unico, perché il regista riminese era molto geloso del suo lavoro sul set. E prima di allora non aveva mai permesso a nessuno di filmarlo mentre dirigeva e dava istruzioni agli attori e alle maestranze. Fellinopolis contiene anche le testimonianze dirette di Lina Wertmüller, di Nicola Piovani e di Dante Ferretti, che hanno lavorato a stretto contatto con Fellini. Del cortometraggio parliamo a parte, perché qui, in questo momento, vorrei raccontare Fellini, e del perché questo centenario ci è ancora più prezioso. L’idea che il cinema e l’arte possono condurci a una immaginazione più profonda, l’idea della poesia della vita non come qualcosa in più, ma come il fondamento della nostra esistenza, anche se non ce ne rendiamo conto, viene da lui, dal mondo appunto felliniano che abbiamo visto, frequentato, amato. L’idea che l’essere poetici sia un dovere che abbiamo, verso gli altri ma soprattutto verso noi stessi, è dentro mille sequenze che Fellini ci ha lasciato. Il suo modo di girare, il suo essere lontano da qualsiasi sceneggiatura scritta, anche se erano sue, ci insegna che la creatività, l’arte del cinema, non è mai nitida, non è mai spiegabile, non è mai un mestiere con delle regole, ma è artigianato della fantasia.

L’universo onirico
Tutti abbiamo sognato con il cinema di Fellini, anche quello più tardo, forse più malinconico. Tutti abbiamo pensato che quel mondo raccontato, quello de La Strada con Zampanò, di Giulietta e della sua magia sospesa. Il volto consapevole, seduttivo eppure smarrito di Marcello, che tutti ancora chiamiamo solo per nome, perché nei film è soltanto Marcello, la meraviglia di Anita Ekberg alla Fontana di Trevi, e quella Rimini meravigliosa, con la neve che scende sul Grand Hotel, come fosse una musica lontana che si dilegua, e la Gradisca che si sposa e se ne va, e il Rex che passa per tutti come una visione, sono dentro i nostri occhi. Ma nessuno gira più film come quelli. Oggi nessuno, e forse è persino comprensibile, ha più il coraggio di sognare senza difese. I sogni nei film ci sono, ma sono limati, lucidati, sistemati, ripensati. Le magie non sono qualcosa di inspiegabile, come erano le magie di Fellini, ma sono simili a quelle dei prestigiatori. Non ci incantano, non ci turbano, sappiamo che c’è un trucco, sappiamo che quel prodigio viene da tanto mestiere e tanto esercizio, ne siamo ammirati, ma non ci emozioniamo.
Con Fellini ci emozioniamo, anche solo a pensare a lui, a lui come era. Un grande poeta, Danilo Dolci, ha scritto un verso bellissimo, che si adatta a una figura come la sua: «Ciascuno cresce solo se sognato». Siamo cresciuti con Fellini quando avevamo l’età giusta per sognare senza limiti. Ci ha portato in un mondo sconosciuto e magico, non ci ha spiegato nulla, non ci ha dato le chiavi per capire, ci ha confuso in quella nebbia che abbiamo visto in Amarcord, dove tutti si perdevano, ma sorridendo. Oggi, in questo mondo dove è vietato perdersi, e dove sognare è diventato un azzardo Federico Fellini è una medicina, una possibilità, una cura, per certi versi. Un modo per capirsi e per capire.
Un pensiero personale
Mi si consenta un ricordo personale. Della prima volta che lo incontrai: era l’autunno del 1987, lavoravo all’Espresso, e la redazione era in via Po, a Roma, in un quartiere signorile a ridosso di villa Borghese. Fellini aveva lo studio poco distante. E aveva l’abitudine di pranzare in un ristorante emiliano che esiste tuttora: da Cesarina. Io ero poco più di un ragazzo, un giorno entrai, e lui era seduto a un tavolo tondo, con due persone. Non ricordo chi fossero. Lo guardai con ammirazione, lui ricambiò lo sguardo e io lo salutai. E lui mi rispose: «Non ha bisogno di presentarsi io so bene chi è lei». Da allora ci siamo visti altre volte. Abbiamo parlato di libri, e quell’omone massiccio, mi sorprendeva ogni volta per quella sua voce argentina, sottile, che non si adattava al suo corpo. Una voce che oggi capisco meglio. Come uno strumento musicale, come qualcosa che veniva da altrove e da lontano. Come un incantesimo, dopotutto. Uno dei suoi incantesimi.