«Fermare la guerra con la guerra è una pretesa davvero assurda»

La guerra è un fenomeno ricorrente che ha accompagnato la storia dell’umanità sin dai primordi, determinando numerose e irreversibili trasformazioni sociali. Ma essa ha alimentato anche un ampio dibattito che ha coinvolto filosofi, teologi, politici, giuristi, letterati, allo scopo di giustificare, in taluni casi, il ricorso alle armi e di difendere il «buon diritto» di combattere. Umberto Curi, già docente ordinario di Storia della filosofia all’Università di Padova, nel libro Padre e re. Filosofia della guerra (Castelvecchi), esamina il controverso fenomeno bellico e i suoi legami inscindibili e sempre attuali con la politica, alla luce di una nutrita linea di pensiero che, da Eraclito a Platone, da Kant a Hegel, da Marx a Gramsci, si è interrogata su questo tema. Rivolgiamo all’autore alcune domande in proposito.
Umberto Curi, perché ha intitolato «Padre e
re» il suo ultimo libro?
«Il titolo “Padre e re” è la citazione di un
frammento tratto dall’opera del filosofo greco Eraclito di Efeso, vissuto nel
VI secolo a.C. Nella sua interezza, il frammento recita: “Polemos [la guerra] di tutte le cose
è padre, di tutte le cose è re, e gli uni rivela uomini, altri dei, gli uni fa
liberi, altri schiavi”. Sia pure in maniera compendiosa, l’Efesio intende
sottolineare il carattere “generativo”, e non solo distruttivo, della guerra, alla quale perciò
si attribuiscono le stesse prerogative di Dio. Con Eraclito ha inizio una
riflessione che si svilupperà successivamente, in tutta la tradizione culturale
e filosofica occidentale, fino al cuore del Novecento».
Platone è il pensatore che nell’antichità ha
trattato maggiormente l’importanza della guerra. Potrebbe parlarcene?
«A conferma della scarsa attendibilità dello
stereotipo secondo il quale Platone sarebbe un idealista, sono almeno tre i
dialoghi nei quali colui che era stato discepolo di Socrate approfondisce il
tema della guerra:
il Protagora, la Repubblica e le Leggi. Introducendo un’importante distinzione
fra la guerra
“esterna” (di per sé non totalmente negativa, e comunque inevitabile) e la guerra “interna”,
combattuta fra i cittadini dello stesso Stato, l’Ateniese rileva che la guerra è lo strumento
attraverso il quale è possibile ingrandire e sviluppare lo Stato, passando
dalla condizione dello “stato dei porci” a quella dello “stato gonfio di
lusso”».
Nell’immaginario classico la guerra ha generato un
determinato sistema di valori. Quale?
«Nel mondo greco antico, la virtù
maggiormente apprezzata è certamente il coraggio, soprattutto ove esso si
manifesti nel combattimento rivolto alla difesa dello Stato. Non dobbiamo
meravigliarci più che tanto. Le vie e le piazze delle nostre città sono ancora
oggi molto spesso intitolate a personaggi che si sono distinti per iniziative
belliche e che hanno legato il loro nome ad alcune memorabili battaglie. Si
deve constatare, con una certa amarezza, che è invece raro trovare una forte
valorizzazione di figure che si siano distinte per il rifiuto della guerra o comunque si
siano opposte al dilagare della violenza».
Nella concezione marxista la guerra è un fenomeno inevitabile, che
si salda con la rivoluzione. Quali esiti ha prodotto?
«Un altro stereotipo, difficile da eliminare,
è quello che riguarda il presunto pacifismo dei Padri del socialismo
scientifico. Nei loro scritti, e nella militanza politica della Prima
Internazionale, Marx ed Engels hanno più volte sottolineato il legame che
unisce guerra e
rivoluzione, come è storicamente confermato dal fatto che la prima rivoluzione
vittoriosa – quella dell’Ottobre del 1917 – è sorta e si è poi sviluppata nel
cuore della Prima guerra
mondiale. Qualcosa di simile è accaduto anche negli Stati Uniti, con l’ondata
di scioperi e manifestazioni anche violente che sono maturati in concomitanza
con l’entrata degli USA nella Grande Guerra».
Negli ultimi decenni si sono moltiplicati i
conflitti che hanno coinvolto la comunità internazionale. Che cosa celano i
concetti di «guerra
umanitaria» e di «guerra
preventiva»?
«La formula della “preventive war”, messa in
circolazione durante l’amministrazione di George W. Bush, è di per sé un
controsenso, come pretesa assurda di evitare la guerra mediante la guerra. Si tratta di una contraddizione che
riguarda anche l’attività di altre organizzazioni multinazionali, come l’ONU,
inchiodate dall’alternativa fra l’intervento bellico in scenari di crisi, allo
scopo di impedire la guerra,
e l’inefficace appello disarmato alla pace. Credo che si debba diffidare di
coloro che, ancora nel cuore della nostra contemporaneità, auspicano che vi sia
un’ “ultima guerra”,
che ponga fine una volta per tutte al divampare della conflittualità bellica».
Lei afferma che oggi la ripartizione ineguale
delle risorse su scala globale è una dichiarazione di guerra da parte degli occidentali al resto
del mondo. Perché?
«Ribadisco una mia convinzione, basata su un
esame obiettivo di alcuni fatti incontestabili. Un mondo in cui quattro quinti
dell’umanità ha a disposizione solo un quinto delle risorse; in cui i primi
dieci contribuenti americani godono di un patrimonio superiore al prodotto
interno lordo di cinque Paesi africani messi insieme; in cui una singola
persona – come Elon Musk – può vantare un reddito annuo pari a quello dei
centoquattro milioni di americani più poveri; in cui ogni anno muoiono di fame
undici milioni di bambini, e in cui un bambino americano consuma come
trecentoventiquattro bambini etiopi, questo mondo è in guerra. Dovremmo prestare ascolto a ciò che
suggerisce da tempo la FAO, l’organizzazione che combatte la fame nel mondo: se
vuoi la pace domani, devi impegnarti per la giustizia oggi».