L'intervista

«Fermare la guerra con la guerra è una pretesa davvero assurda»

Fenomeno ricorrente nella storia dell’umanità, la guerra ha alimentato anche un ampio dibattito che ha coinvolto filosofi, teologi, politici, giuristi, letterati, allo scopo di giustificare, in taluni casi, il ricorso alle armi e di difendere il «buon diritto» di combattere – Ne parliamo con Umberto Curi, già docente ordinario di Storia della filosofia all’Università di Padova
Fabio Pagliccia
30.12.2024 06:00

La guerra è un fenomeno ricorrente che ha accompagnato la storia dell’umanità sin dai primordi, determinando numerose e irreversibili trasformazioni sociali. Ma essa ha alimentato anche un ampio dibattito che ha coinvolto filosofi, teologi, politici, giuristi, letterati, allo scopo di giustificare, in taluni casi, il ricorso alle armi e di difendere il «buon diritto» di combattere. Umberto Curi, già docente ordinario di Storia della filosofia all’Università di Padova, nel libro Padre e re. Filosofia della guerra (Castelvecchi), esamina il controverso fenomeno bellico e i suoi legami inscindibili e sempre attuali con la politica, alla luce di una nutrita linea di pensiero che, da Eraclito a Platone, da Kant a Hegel, da Marx a Gramsci, si è interrogata su questo tema. Rivolgiamo all’autore alcune domande in proposito.

Umberto Curi, perché ha intitolato «Padre e re» il suo ultimo libro?
«Il titolo “Padre e re” è la citazione di un frammento tratto dall’opera del filosofo greco Eraclito di Efeso, vissuto nel VI secolo a.C. Nella sua interezza, il frammento recita: “Polemos [la guerra] di tutte le cose è padre, di tutte le cose è re, e gli uni rivela uomini, altri dei, gli uni fa liberi, altri schiavi”. Sia pure in maniera compendiosa, l’Efesio intende sottolineare il carattere “generativo”, e non solo distruttivo, della guerra, alla quale perciò si attribuiscono le stesse prerogative di Dio. Con Eraclito ha inizio una riflessione che si svilupperà successivamente, in tutta la tradizione culturale e filosofica occidentale, fino al cuore del Novecento».

Platone è il pensatore che nell’antichità ha trattato maggiormente l’importanza della guerra. Potrebbe parlarcene?
«A conferma della scarsa attendibilità dello stereotipo secondo il quale Platone sarebbe un idealista, sono almeno tre i dialoghi nei quali colui che era stato discepolo di Socrate approfondisce il tema della guerra: il Protagora, la Repubblica e le Leggi. Introducendo un’importante distinzione fra la guerra “esterna” (di per sé non totalmente negativa, e comunque inevitabile) e la guerra “interna”, combattuta fra i cittadini dello stesso Stato, l’Ateniese rileva che la guerra è lo strumento attraverso il quale è possibile ingrandire e sviluppare lo Stato, passando dalla condizione dello “stato dei porci” a quella dello “stato gonfio di lusso”».

Nell’immaginario classico la guerra ha generato un determinato sistema di valori. Quale?
«Nel mondo greco antico, la virtù maggiormente apprezzata è certamente il coraggio, soprattutto ove esso si manifesti nel combattimento rivolto alla difesa dello Stato. Non dobbiamo meravigliarci più che tanto. Le vie e le piazze delle nostre città sono ancora oggi molto spesso intitolate a personaggi che si sono distinti per iniziative belliche e che hanno legato il loro nome ad alcune memorabili battaglie. Si deve constatare, con una certa amarezza, che è invece raro trovare una forte valorizzazione di figure che si siano distinte per il rifiuto della guerra o comunque si siano opposte al dilagare della violenza».

Nella concezione marxista la guerra è un fenomeno inevitabile, che si salda con la rivoluzione. Quali esiti ha prodotto?
«Un altro stereotipo, difficile da eliminare, è quello che riguarda il presunto pacifismo dei Padri del socialismo scientifico. Nei loro scritti, e nella militanza politica della Prima Internazionale, Marx ed Engels hanno più volte sottolineato il legame che unisce guerra e rivoluzione, come è storicamente confermato dal fatto che la prima rivoluzione vittoriosa – quella dell’Ottobre del 1917 – è sorta e si è poi sviluppata nel cuore della Prima guerra mondiale. Qualcosa di simile è accaduto anche negli Stati Uniti, con l’ondata di scioperi e manifestazioni anche violente che sono maturati in concomitanza con l’entrata degli USA nella Grande Guerra».

Negli ultimi decenni si sono moltiplicati i conflitti che hanno coinvolto la comunità internazionale. Che cosa celano i concetti di «guerra umanitaria» e di «guerra preventiva»?
«La formula della “preventive war”, messa in circolazione durante l’amministrazione di George W. Bush, è di per sé un controsenso, come pretesa assurda di evitare la guerra mediante la guerra. Si tratta di una contraddizione che riguarda anche l’attività di altre organizzazioni multinazionali, come l’ONU, inchiodate dall’alternativa fra l’intervento bellico in scenari di crisi, allo scopo di impedire la guerra, e l’inefficace appello disarmato alla pace. Credo che si debba diffidare di coloro che, ancora nel cuore della nostra contemporaneità, auspicano che vi sia un’ “ultima guerra”, che ponga fine una volta per tutte al divampare della conflittualità bellica».

Lei afferma che oggi la ripartizione ineguale delle risorse su scala globale è una dichiarazione di guerra da parte degli occidentali al resto del mondo. Perché?
«Ribadisco una mia convinzione, basata su un esame obiettivo di alcuni fatti incontestabili. Un mondo in cui quattro quinti dell’umanità ha a disposizione solo un quinto delle risorse; in cui i primi dieci contribuenti americani godono di un patrimonio superiore al prodotto interno lordo di cinque Paesi africani messi insieme; in cui una singola persona – come Elon Musk – può vantare un reddito annuo pari a quello dei centoquattro milioni di americani più poveri; in cui ogni anno muoiono di fame undici milioni di bambini, e in cui un bambino americano consuma come trecentoventiquattro bambini etiopi, questo mondo è in guerra. Dovremmo prestare ascolto a ciò che suggerisce da tempo la FAO, l’organizzazione che combatte la fame nel mondo: se vuoi la pace domani, devi impegnarti per la giustizia oggi».