Fiume, l’ultima rivoluzione di D’Annunzio

Un secolo fa, nel settembre del 1919, Gabriele D’Annunzio guidava i suoi legionari alla conquista della città di Fiume, marciando vittorioso da Ronchi, località dell’attuale provincia di Gorizia. La mancata inclusione del capoluogo del Carnaro, come allora si chiamava, nel Regno d’Italia, rappresentava il boccone più amaro ingoiato dal governo di Roma, durante e dopo la Conferenza di pace di Versailles, tanto che si incominciò a parlare di «vittoria mutilata».
A incaricarsi della missione «salvifica» di redimere Fiume fu un uomo di lettere, D’Annunzio, il quale diede vita a un’impresa leggendaria, che ancora oggi non cessa di stupire, per l’esplosione di fantasia e la liberazione di energie che sprigionarono i 500 giorni del suo governo rivoluzionario sulla città portuale. Ora Giordano Bruno Guerri, storico e presidente della Fondazione del «Vittoriale degli Italiani», la sontuosa reggia del Vate sul Garda, narra l’epopea di quei 16 mesi di «follia al potere», nel volume «Disobbedisco», edito da Mondadori. Il titolo è azzeccato, perché, in verità, nel suo viluppo di contraddizioni, l’occupazione di Fiume rappresentò una gigantesca sedizione, appoggiata da ufficiali e truppe del Regio esercito italiano, un episodio di eversione dell’ordine costituito, e un esuberante festival dell’illegalità, culminato negli atti di pirateria con cui gli «uscocchi» del Comandante diedero l’assalto ai navigli in transito nell’Adriatico, a scopo di rapina.
Come osserva Guerri, si tratta dell’unico caso della storia in cui un poeta fu alla testa di un governo, esercitando un potere che, prima ancora che militare e civile, fu soprattutto estetico e mentale.
Il carisma di D’Annunzio fu tale che egli stesso prese a guidare, sulle colline dell’immediato entroterra, marce gioiose e inghirlandate, dove si coniò il gesto, mai osato prima, di infilare fiori nelle canne dei fucili. E chi, se non l’Imaginifico, poteva inventare rituali del genere? Il Comandante riuscì, in un primo tempo, a tenere insieme le due anime del fiumanesimo, due mondi destinati tuttavia a divorziare: da una parte, gli ufficiali di truppa, come il suo primo capo di gabinetto, Giovanni Giuriati, e Carlo Reina, espressione del nazionalismo moderato-conservatore; dall’altra, gli autentici incendiari che animarono il laboratorio irripetibile della grande orgia collettiva che fu la «festa della rivoluzione».
Basti pensare che, durante la Reggenza del Carnaro, venne legalizzato il divorzio, liberalizzato l’uso delle droghe, tollerata, se non incoraggiata, ogni forma di sesso, dall’amore di gruppo all’omoerotismo. Gay, o bisessuali, erano alcuni dei più stretti collaboratori del Vate, come il «ministro degli Esteri» di Fiume, l’ebreo belga Léon Kochnitzky, il letterato americano Henry Furst, lo scrittore Giovanni Comisso, e forse anche il segretario d’azione del poeta, l’aviatore Guido Keller, l’uomo che riuscì a duplicare, in farsa, l’impresa del volo su Vienna, lanciando un pitale su Palazzo Montecitorio, durante un raid aereo su Roma. Ma il vero cervello politico della Reggenza, accanto a D’Annunzio, fu soprattutto il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris. Guerri ricostruisce anche aspetti poco noti della vicenda, come la presenza, accanto ai legionari, di «legionarie» donne che costituirono un’avanguardia dentro l’avanguardia.
Non meno interessante il capitolo del tradimento di Mussolini. Il Duce del neonato fascismo non voleva condividere con nessun altro competitore, neanche con il «duce» di Fiume, la supremazia sul composito ambiente di ex combattenti e interventisti, futuristi, arditi, sindacalisti e rivoluzionari anarcoidi, che rappresentavano il bacino di consensi entro i quali entrambi esercitavano la loro leadership. Per questa ragione, Mussolini, il 20 settembre 1919, pubblicò sul suo quotidiano, Il Popolo d’Italia, una versione censurata della lettera di D’Annunzio nella quale lo invitava, senza perifrasi, a unirsi a lui nella crociata per l’italianità della «Città di Vita». Per compensare questa palese freddezza, Benito lanciò una pubblica sottoscrizione a favore di Fiume. Ma poi, l’anno seguente, il capo delle camicie nere e dittatore in erba, pugnalò alla schiena il poeta, dapprima sostenendo il Trattato di pace di Rapallo con il quale l’Italia rinunciava a ogni pretesa di sovranità su Fiume e sulla Dalmazia, e infine mandando a monte il piano insurrezionale per la conquista del potere nella Penisola: una «marcia su Roma» in anticipo di due anni su quella che avrebbe avuto luogo, alla fine di ottobre del 1922, ad opera dei soli squadristi. In tal senso, Mussolini può essere definito un «liquidatore» dell’esperienza fiumana, che si esaurì nel «Natale di sangue» del 1920, durante il quale i cannoni della corazzata Andrea Doria, su ordine del capo del governo italiano, Giovanni Giolitti, aprirono il fuoco sulla città, colpendo anche il Palazzo della Reggenza. Merito di D’Annunzio fu quello di aver voluto evitare una guerra civile, accettando come un dato di fatto la sua sconfitta politica.
Avanguardie di controcultura
Fiume venne così evacuata, e il Comandante si ritirò a vita privata, nel suo eremo di Gardone, pur senza nascondere la sua irrequietezza, in vari e delicati passaggi del regime fascista. Non a caso, dopo la morte del poeta, avvenuta il 1. marzo 1938, emissari del Duce trafugarono, dagli archivi del Vittoriale, i documenti più compromettenti che riguardavano i controversi, e non di rado burrascosi, rapporti tra i due uomini.
L’autore mette in luce, nel suo libro, anche taluni episodi «sommersi» dei 500 giorni. Ad esempio, il movimento «Yoga», guidato da Keller, ed espressione della più inquieta élite fiumana, venata di nichilismo. Un cenacolo, non particolarmente ristretto, che si riuniva all’ombra di un fico, per celebrare una sorta di culto misterico, legato al superamento delle convenzioni della società borghese, e per lanciare una ricerca spirituale non confinata all’intimismo. Guerri ricorda che questo circolo diede vita anche a quattro numeri di una rivista, Yoga, per l’appunto, che «restano come testimonianza della più contraddittoria minoranza intellettuale dell’Impresa, avanguardia di quella controcultura del Novecento che nutrirà tanto i totalitarismi quanto la contestazione degli anni Sessanta, il New Age degli anni Novanta, i movimenti no-global del Duemila».