Arte

Füssli, il drammaturgico pittore del diavolo

Il Kunstmuseum di Basilea dedica un’ampia retrospettiva al romantico svizzero
Johann Heinrich Füssli, Le tre streghe. (1782-1783).
Paolo Repetto
28.12.2018 06:00

«Ibant obscuri sola sub nocte per umbram. Andavano oscuri nell’ombra della notte solitaria». (Eneide, VI, 268). Questo memorabile verso di Virgilio, intriso di sospensione, attesa, sogno, silenzio – forgiato sul morbido metallo dell’ipallage, la sostituzione, il cambio dei due aggettivi – meglio di chiunque altro ci conduce, ci prende per mano, nella nostra lenta passeggiata attraverso i magnetici dipinti di Johann Heinrich Füssli (Zurigo, 1741 - Londra, 1825). E ci accompagna alla visita di questa grande mostra, nelle nuove sale del Kunstmuseum di Basilea, dedicata ad uno dei più grandi pittori svizzeri di tutti i tempi. A cura di Eva Reifert con Claudia Blank. Dai tempi di Caravaggio, pochi pittori hanno amato toni tanto bassi, scuri, lunari. Ma mentre i dipinti di Michelangelo Merisi definiscono le proprie ombre attraverso nette e fulminanti lastre di luce, dove la precarietà della carne si trasfigura in mercurio e diamante, il lento carbone di Füssli brucia silenziosamente in una ricca e sottile evaporazione. Per motivi politici e giudiziari, giovanissimo, a ventun anni, era fuggito dalla sua Zurigo: prima in Germania, poi in Inghilterra, poi in Italia, infine, dove visse tutta la vita, di nuovo a Londra. E nella effervescente, liberalissima capitale inglese, a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, Turner e Füssli appaiono di una modernità senza precedenti, in una nuova pittura, una nuova iconografia: ora esterna ora interna all’uomo; ora naturalistica e atmosferica, ora introspettiva e onirica; ora paesaggistica ora visionaria, ora letteraria ora cosmica; un inedito ordine mentale e formale, che anticipa molti temi dell’arte del Novecento.

Certo, la poetica di Füssli è tutta sotto il segno del manierismo: Rosso fiorentino, Parmigianino, Primaticcio, Tibaldi. E la bellissima Adorazione dei pastori di Luca Cambiaso, custodita a Brera, con le sue marcate fisionomie che intrecciano gli uomini agli animali, l’umile al divino, in un denso accordo ricco di armonici che si riverberano intorno all’incandescente perno braciere di Gesù bambino, appare come uno dei riferimenti più caldo e affettuoso della sua lunga residenza in Italia, soprattutto a Roma (1770-1778). Ma a questi nomi occorre aggiungerne un altro, la cui influenza, oggettivamente, è più chiara ed evidente: Tintoretto. Il pittore della Notte, come amava definirlo Turner; il pittore di meravigliosi fantasmi appena delineati da fluide e sottili scariche elettriche condotte sui fili di lievi pennellate d’argento. L’umile, tenace rivale di Tiziano, forse meno profondo, ma più appassionato tra le fosforescenti vibrazioni dei luoghi silenziosi della luna. Nel dipinto, presente in mostra, Britomart che libera Amoretta dall’incantesimo di Busirame, tratto dal poema La regina fatata di Edmund Spenser, l’armatura del cavaliere, appena accennata in un coriaceo involucro di nero e argento, il braccio destro con il falco dell’elsa, alto e levato; il fulgore dell’elmetto piumato, la torsione del personaggio crollato in primo piano a terra, i cavi tesi e spezzati del gioco delle diagonali delle braccia, tutto ha un rintocco timbrico ben chiaro e lampante sotto la scenografica campana della scuola di Tintoretto. Così la notte è il grande spazio mentale dove abita il teatro di Füssli. Nessuno dei suoi dipinti è ambientato nella netta luce del giorno. Come una quinta, un palcoscenico, il velluto della sera avvolge sempre i suoi personaggi e le sue scene.Füssli stimava molto i pittori manieristi, quei grandi artisti, che in vari modi hanno saputo andare oltre Raffaello, oltre Michelangelo: in forme ancora più sensuali e livide, in colori ancora più ventosi e fosforescenti, in composizioni profondamente inquiete, dove l’uomo e la natura, la coscienza e l’universo dialogano in un prisma di luce che è immensità e limite, cosmo e prigione. Le loro immagini si reggevano ancora su due antiche favole: ora quelle della grande tradizione cristiana, i vari episodi della nascita, la vita, la morte e la resurrezione di Cristo; ora le inesauribili metamorfosi della mitologia greca e antica. Ispirandosi alle storie e le immagini di altri grandi scrittori, soprattutto Omero, Shakespeare e Milton, Füssli fu tra i primi ad approfondire un mondo abbandonato da Dio e pervaso da nuovi mostri, nuovi demoni, nuovi dei.

Ammiratore di Shakespeare

Andò oltre la superficie, l’inquieta soglia dei pittori del Seicento, per primo testimoniando e indagando i misteri dei sogni e gli abissi dell’inconscio. Paragonati ad altri capolavori letterari, riteneva le Metamorfosi di Ovidio troppo superficiali, eccessivamente fluide e astratte e veloci. Nell’Odissea, il solo episodio del dolore compresso, silenzioso, muto: la morte del cane Argo, per lui valeva di più di tutto Ovidio. Il cane, l’animale Argo, non riconosciuto, completamente abbandonato, era probabilmente il più alto e nobile simbolo dell’animale uomo, anch’esso abbandonato da un Dio, in apparenza, totalmente indifferente. Sfumata la fede, la preghiera, il gesto verticale del credere, che cosa rimaneva? Abbandonate le brillanti e colorate forme della mitologia, che cosa perdurava? Se Dante gli appariva un genio assoluto ma un po’ troppo ortodosso, nella sua lirica e ferrea visione di irreprensibile cristiano, il vero genio dei tempi moderni rimaneva Shakespeare, il meno ideologico, il più libero dei grandi scrittori. In un dipinto, presente in mostra, lo aveva rappresentato bambino, nutrito dalla Tragedia e dalla Commedia: i due poli del riso e del pianto, della gioia e del dolore, della tenebra e della luce, i due estremi che delimitano il bizzarro pianeta uomo.

Scrisse: «Il sapere è la base reale della visione». Aveva una cultura letteraria enorme. Conosceva perfettamente il tedesco, l’inglese e l’italiano. Per tutta la vita studiò il latino ed il greco antico. Era infinitamente grato a sua mamma, che fin da bambino gli aveva trasmesso un grande amore per i classici. Un suo allievo, Benjamin Robert Haydon, racconta che mentre dipingeva talvolta declamava un verso di Omero, Tasso, Dante, Ovidio, Virgilio, aggiungendo: dipingiamo questo! Ed il suo mentore, il banchiere londinese Thomas Coutts, che dai tempi della sua lunga permanenza a Roma lo aveva finanziato, dichiarò che poteva recitare a memoria quasi tutto Shakespeare. Amava moltissimo il Macbeth. Era fiero che qualcuno lo aveva chiamato il «pittore ordinario del diavolo»: «Si, egli ha posato per me parecchie volte». Nella battaglia della vita, come a Macbeth e Banquo, i suoi dipinti gli apparivano con la stessa intensità e la stessa luminosa ombra delle tre streghe: «Quando ci incontreremo ancora, noi tre?/Nel tuono, tra i lampi o nella pioggia?/Quando il frastuono sarà cessato./Quando la battaglia sarà persa e vinta.» «Banquo/La terra ha le sue bolle, come l’acqua./E tali sono costoro./Dove sono svanite?//Macbeth/Nell’aria. E ciò che sembrava corporeo/si è dissolto come fiato al vento».