Gardi Hutter: «La prima risata dell’uomo è stata in faccia alla morte»

Sabato 25 luglio alle ore 20 Gardi Hutter sarà in scena alle cave di Arzo con il suo storico spettacolo Giovanna d’ArpPo, che il prossimo anno festeggerà i 40 anni dal debutto sul palco del CRT di Milano. L’incasso della serata andrà a sostegno di progetti di artisti locali, particolarmente colpiti dalla crisi pandemica.
In questo periodo per molti versi drammatico, qual è l’importanza della risata che può suscitare un clown come lei?
«La risata è sempre importante perché viene dal tragico, è figlia della tragedia. I peggiori drammi esaltano la comicità più sfrenata. Il tema della nascita della risata mi ha sempre interessata, poiché se il pianto è naturale non si può dire la stessa cosa del ridere, che è un fatto culturale. Il bambino nasce e subito piange, mentre per capire cosa significhi ridere ci mette quattro anni. La mia teoria in proposito parte dal fatto che i primi manufatti artistici sono tutti legati alla morte, alle cerimonie funebri. Da quando è stato inventato un altro mondo si è iniziato a fornire al defunto ciò che si pensava avesse bisogno durante il viaggio verso l’aldilà. La sfida più grande per il genere umano è accettare la morte che non riusciamo a vincere ma di cui possiamo ridere e ciò ci permette di diminuire un po’ la nostra paura nei suoi confronti. È questo che mi fa credere che la comicità sia nata proprio dal tragico, perché il ridere ci aiuta ad accettare questo destino e a conviverci. La prima risata è stata fatta in faccia alla morte e quando si ride della goffaggine o dell’incapacità di qualcuno a fare qualcosa, si ride sempre di ciò che non va, che non funziona. Non si ride dell’eroe ma dell’antieroe, di chi vuol essere intelligente e invece è stupido, di chi vuol essere coraggioso ma è vigliacco. Possiamo essere forti, belli e intelligenti ma alla fine moriremo tutti».
Il periodo del confinamento è stato anche il primo lungo periodo di pausa per lei in una carriera quasi quarantennale: come l’ha vissuto?
«Ho pensato soprattutto al traguardo dei miei primi quarant’anni di carriera: ci sarà una autrice che scriverà un libro su di me, mentre io sto scrivendo sul mio lavoro: un testo nel quale descrivo come si crea uno spettacolo. Sarà pubblicato gratuitamente su internet: sarà un regalo per il mio pubblico. Descriverò la creazione dello spettacolo La sarta del quale ho a disposizione tutti i protocolli, i video e le fotografie delle prove. È il libro che mi sarebbe piaciuto leggere da giovane artista, nel quale si racconta come si crea, come si costruisce uno spettacolo».
Svelerà i segreti del suo mestiere quindi?
«Forse, mi sto rendendo conto che è un libro molto difficile da scrivere perché la domanda più frequente che mi viene rivolta è: “Ma da dove ti vengono tutte queste idee?”. Ed è una domanda alla quale non è semplice rispondere: dietro c’è tutta una preparazione che fa sì che una certa idea possa nascere. Si tratta di processi difficili da descrivere, io posso raccontare cosa è successo a me ma non è detto che ciò valga anche per gli altri. Tutti potranno seguire le varie tappe dello sviluppo dello spettacolo e ancora oggi, quando vedo la prima prova pubblica de La sarta, mi ricordo la nostra disperazione, tutti i problemi che avevamo, quel che non funzionava, il lungo lavoro che c’è voluto finché tutto funzionasse alla perfezione».
La sua Giovanna d’ArpPo in scena domani ad Arzo avrà anche scopi benefici: un modo di aiutare i suoi colleghi in questo periodo difficile?
«Sì, la maggior parte degli artisti vive già di solito in modo precario, poco al di sopra del livello di sopravvivenza, e oggi hanno problemi molto gravi, rischiano di dover cambiar mestiere se la situazione non muta. Io ho più riserve e quindi ho pensato che potevo dar loro una mano. Anch’io ho subito le conseguenze della crisi: ho dovuto annullare una tournée di un mese in Nuova Zelanda e sono stati cancellati anche tutti gli spettacoli che avevo in programma in alcuni piccoli festival in diversi Paesi europei, mentre quelli che si svolgono in grandi teatri che possono contare sulle sovvenzioni pubbliche si faranno, perché possono permettersi di fare lo spettacolo anche solo con la metà del pubblico in sala. Col coronavirus ridere è più pericoloso che restare seri e quindi mi dico che dovrei fare spettacoli che non fanno ridere, ma non credo che ce la farei».