L'analisi

Giornalismo e intelligenza artificiale: quale scenario

Dopo il rilascio online, lo scorso 30 novembre, di ChatGPT molti si sono chiesti se il mestiere di chi narra i fatti potrà sopravvivere - Le implicazioni etiche di un cambiamento che si annuncia «radicale»
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Dario Campione
08.05.2023 06:00

Per una volta parliamo di voi. E di noi. Di voi lettori e di noi giornalisti. E lo facciamo a proposito di intelligenza artificiale (IA). Il 30 novembre scorso, OpenAI - organizzazione no profit nata nel 2015 a San Francisco su iniziativa, tra gli altri, di Elon Musk - ha rilasciato online ChatGPT, un software di linguaggio generativo progettato per simulare una conversazione con gli esseri umani.

Subito è stato chiaro a tutti come ChatGPT contenesse i germi di una potenziale rivoluzione nel complesso sistema dell’informazione. Soprattutto per la facilità e la rapidità di redazione di testi su qualsiasi argomento.

L’IA cambierà il giornalismo, è stato il commento più diffuso. Ma molti si sono avventurati oltre, sostenendo che l’IA «ucciderà» il giornalismo. O forse, soltanto i giornalisti. Satya Nadella, il manager indo-americano che da 9 anni governa Microsoft, ha detto ad esempio che i giornalisti, tra pochi anni, non cominceranno più a lavorare da un foglio bianco, ma partiranno sempre da una bozza creata dall’IA.

«L’interazione con l’automazione obbligherà i giornalisti a ripensare la loro professione, per farvi entrare dentro una migliore capacità di gestione dei dati e una differente organizzazione di contenuti molto più facilmente producibili e riproducibili», ha scritto invece Carlo Sorrentino, ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Firenze. Mettendo comunque in guardia dalla vecchia «contrapposizione fra l’apocalittico e l’integrato», destinata sempre a «portare poco lontano».

La sostituzione

Davvero, allora, le macchine potranno sostituire i giornalisti nel loro mestiere? Davvero l’IA generativa sarà in grado di automatizzare il giornalismo con la stessa facilità con cui questo è avvenuto, in passato, con la catena di montaggio? E se ciò accadesse, che cosa significherebbe per il futuro delle notizie? C’è chi sostiene - sono i fautori del cosiddetto giornalismo computazionale (vedi articolo a fianco) - che l’IA risolverà sicuramente, e in modo definitivo, quantomeno il problema del sovraccarico di informazioni, aiutando i giornalisti a identificare le notizie più importanti in un flusso di informazioni in continua crescita e comunque non gestibile dalla mente umana.

Altri sottolineano la dipendenza dei mezzi di informazione da elementi umani insostituibili: la fiducia e la credibilità, ad esempio.

L’introduzione dell’IA nel giornalismo, dicono, potrebbe essere, sotto questo punto di vista, molto rischiosa. E, a tale proposito, citano una recente indagine della Boston University secondo cui il deficit di credibilità delle notizie aumenta enormemente nel pubblico quando viene rivelato che l’articolo è stato generato da una macchina.

In realtà, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per la creazione di articoli in maniera automatica, cioè grazie a piattaforme e software concepiti per la scrittura di testi, non è pratica recente. Da molti anni, alcune tra le più importanti redazioni giornalistiche del mondo raccolgono, elaborano e pubblicano notizie automaticamente. Gli americani lo chiamano robot journalism (o anche automated journalism).

Il Los Angeles Times è stato tra i pionieri in questo campo con l’introduzione, nel 2014, di un algoritmo in grado di generare notizie dettagliate sui terremoti basate su informazioni provenienti dallo US Geological Survey. L’Associated Press dispone di una tecnologia intelligente che trasforma i dati delle partite NBA in articoli d’anteprima senza alcun intervento umano, mentre il Washington Post, il giornale di proprietà di Jeff Bezos, utilizza un software di scrittura automatica - Heliograf - in grado di produrre centinaia di pezzi al minuto senza l’intervento umano e in maniera accurata e personalizzata, in base al target.

In Europa, si legge nel rapporto pubblicato dal Reuters Institute dell’Università di Oxford (Putting Europe’s Robots on the Map: Automated journalism in news agencies), già nel 2015 l’agenzia di stampa portoghese Lusa aveva sfruttato sistemi di automated journalism per la creazione di articoli e resoconti sulle elezioni politiche nel Paese iberico. Altre agenzie come Reuters e France-Presse continuano a produrre notizie in automatico, così come fa la norvegese NTB per i report delle partite di calcio del campionato nazioale. Un caso particolare riguarda poi l’agenzia olandese ANP, che sfrutta l’IA per semplificare gli articoli e riscriverli con un vocabolario più semplice, rendendoli fruibili anche dai bambini.

«Il rilascio di ChatGPT, lo scorso 30 novembre, è stato davvero un momento di svolta - ha scritto Jeff Israely, già corrispondente di Time a Roma e Parigi e oggi docente di Giornalismo a SciencePo, all’Institute d’Etudes Politiques - I modelli linguistici automatizzati raggiungono parte dell’essenza stessa di ciò che facciamo: la scrittura, la sintesi delle informazioni, la creazione di storie». E inevitabilmente, i giornalisti si chiedono se saranno «ridotti a fact-checker della macchina. Eppure - aggiunge Israely - c’è qualcosa al di là della portata dei database e degli algoritmi: ogni giorno accadono fatti nuovi. Vediamo cose, facciamo collegamenti e, occasionalmente, secondo il famoso detto, facciamo l’unico giornalismo “vero”: pubblichiamo cioè quello che qualcun altro non vuole sia pubblicato».

Se la fantascienza è dietro le spalle

Che cos’è l’intelligenza artificiale (IA)? Come funziona? Come viene usata? E come influisce sulle nostre vite? Una definizione chiara e coerente di IA permette di dare una prima risposta agli inevitabili quesiti che accompagnano la crescita esponenziale dei sistemi informatici. Futurologi e scrittori di fantascienza hanno molto insistito (e lanciato allarmi di ogni genere) su un mondo dominato dai robot e dai computer. Lo hanno fatto quando lo sviluppo delle macchine non aveva raggiunto i livelli e le capacità di calcolo dei moderni processori. Oggi, quegli scenari che a molti apparivano inverosimili sono realtà. E, con essi, tornano domande e timori sulla possibile sottomissione degli esseri umani ai chip.

Tornando alle domande iniziali, l’IA è l’abilità di una macchina di mostrare capacità umane quali il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione e la creatività. L’IA permette ai sistemi di capire il proprio ambiente, mettersi in relazione con quello che percepisce e risolvere problemi, agire verso un obiettivo specifico. Il computer riceve i dati, li processa e risponde: adattando il proprio comportamento, analizzando gli effetti delle azioni precedenti e lavorando in autonomia.

Alcuni tipi di IA esistono da oltre 50 anni, ma negli ultimi anni i progressi nella potenza dei computer, la disponibilità di enormi quantità di dati e lo sviluppo di nuovi algoritmi hanno totalmente trasformato lo scenario .

Due sono i “tipi” di intelligenza artificiale: i software e la cosiddetta intelligenza incorporata. La prima riguarda i programmi di analisi di immagini, i motori di ricerca, i sistemi di riconoscimento facciale e vocale, i traduttori automatici e così via. La seconda, invece, è relativa al funzionamento dei robot, dei veicoli autonomi, dei droni e, più in generale, della cosiddetta “Internet delle cose”.

I moderni sistemi di IA come ChatGPT sono basati su algoritmi di apprendimento profondo (Deep Learning) identificati con la sigla LLM (Large Language Model); algoritmi che, analizzando enormi set di dati (Big Data) sono in grado di riconoscere contenuti, generarli, riassumerli, tradurli e persino prevederli.

La realtà in cifre e il reporter computazionale

Francesco Marconi, 34 anni, già responsabile ricerca e sviluppo del Wall Street Journal, è ricercatore affiliato del MIT Media Lab e autore di Newsmakers: Artificial Intelligence and the Future of Journalism. L’anno scorso, MediaShift lo ha indicato tra i venti principali innovatori nell’ambito dei media digitali. Marconi è uno dei teorici del cosiddetto «giornalismo computazionale».

La sua idea è chiara: «Il computer gestisce i dati, i numeri, permettendo al giornalista di concentrarsi sul racconto». L’intelligenza artificiale (IA), ha spiegato il ricercatore di origini italiane in numerosi interventi e interviste, «non è una minaccia per il giornalismo, se usata come strumento di potenziamento. È piuttosto una tecnologia in grado di aiutare i giornalisti a fare più inchieste, analizzando enormi set di dati e mettendone in evidenza le relazioni; relazioni che sarebbero invisibili anche ai reporter investigativi più esperti».

L’imponente mole di informazioni che la nostra società sta producendo, sottolinea Marconi, «ci spinge inevitabilmente verso il giornalismo computazionale». Questo flusso ininterrotto e gigantesco di dati pone «una nuova sfida che non può essere risolta esclusivamente con i metodi del giornalismo tradizionale. Produciamo e conserviamo più informazioni adesso che in qualsiasi momento precedente nella storia umana: eliminare l’informazione indesiderata richiede molto più sforzo che accumularla. Il giornalismo computazionale, che utilizza i metodi della data science e della computer science, permette di filtrare grandi volumi di informazioni in modo molto più efficace. Contestualizza dati grezzi monitorando continuamente più fonti, elaborandoli e verificandoli in tempo reale».

Insomma, l’IA setaccia. Discerne. «L’IA non dovrebbe essere vista soltanto come uno strumento per generare contenuti, ma anche per filtrarli - sostiene Marconi - Alcuni esperti prevedono che, entro il 2026, il 90% dei contenuti online potrebbe essere generato automaticamente. Ciò segna un punto di svolta: dobbiamo concentrarci sulla costruzione di macchine che filtrino il rumore, distinguano i fatti dalla finzione ed evidenzino ciò che è significativo».

Quel che oggi chiamiamo notizia, conclude il ricercatore del MIT Media Lab, «nei prossimi decenni si evolverà in un concetto sempre più legato all’analisi di anomalie statistiche, a quel che è matematicamente imprevedibile o scientificamente improbabile. Essere in grado di utilizzare la IA per ricavare segnali analitici consente ai giornalisti di basare gli articoli sui fatti che, alla fine, sono la base per stabilire una “verità condivisa”». L’obiezione, inevitabile, sulla riduzione della realtà a numeri e cifre e sulla contemporanea svalutazione della componente umana viene respinta da Marconi: «Il ruolo dei giornalisti è e rimarrà sempre fondamentale: sono le storie a spiegarci come funziona il mondo e solo un essere umano è in grado di capirle. Ma questo non significa che non si possa portare un po’ di scientificità anche nel processo della costruzione di una storia».