L’intervista

Giuseppe Giacobazzi: «La tv ha rovinato la comicità»

A colloquio con il comico romagnolo che sabato 11 gennaio mette in scena al Teatro di Locarno lo spettacolo «Noi - Mille volti e una bugia»
Giuseppe Giacobazzi (Andrea Sasdelli all’anagrafe), 56 anni.
Red. Online
11.01.2020 06:00

Sui documenti c’è scritto Andrea Sasdelli. Il pubblico però lo conosce come il «poveta romagnolo vinificatore» Giuseppe Giacobazzi, maschera con la quale si è fatto conoscere sui palchi della comicità tv (Zelig soprattutto) che poi ha abbandonato per quelli teatrali, come quello di Locarno, dove stasera proporrà lo spettacolo Noi - Mille volti e una bugia. Lo abbiamo intervistato.

Uno spettacolo quello che presenta a Locarno che richiama, nel titolo, Pirandello. Ciò significa uno scostamento dal suo tradizionale umorismo e un avvicinamento a forme teatrali più classiche?
«Diciamo che c’è una sorta di evoluzione, una crescita anche interiore che ti porta a vedere in modo diverso le cose. Ed essendo io più che un comico che vive sulle battute, un narratore di storie – che sono fondamentalmente quelle della mia vita – di conseguenza anche il modo di raccontarle muta. In Noi - Mille volti e una bugia, in particolare, parlo delle maschere che ciascuno di noi indossa per rapportarsi con gli altri. A partire da quella che io porto sul palco, quella del mio alter ego Giuseppe Giacobazzi, del quale racconto come è nato, come si è sviluppato e dei contrasti che ho avuto con lui».

Può spiegarsi meglio?
«Mi riferisco alla differenza tra fare comicità in tv e in teatro e del mio pendere decisamente a favore di questa seconda opzione. Lo so, sembra assurdo detto da uno come me che alla tv deve la notorietà. Però va detto che per me sin dall’inizio la televisione non è mai stata l’obiettivo principale bensì un mezzo per farmi conoscere, per costruirmi una notorietà che mi consentisse poi di andare in teatro e mostrare che sapevo fare altro. Ecco perché anche negli miei anni di Zelig, non ho mai smesso di scrivere, di realizzare spettacoli sempre nuovi. E perché quello che presentavo in tv non l’ho mai replicato in teatro. Perché credo che chi paga un biglietto abbia diritto a qualcosa di diverso rispetto a chi si sorbisce il prodotto televisivo standosene su divano di casa».

La tv, insomma, proprio non le va a genio...
«Diciamo che non è il medium che mi rappresenta meglio e che non ho una particolare voglia di frequentare. L’unica cosa che ho fatto volentieri era, appunto, Zelig perché era quanto di più vicino c’era alla dimensione teatrale: si svolgeva infatti in un teatro, con un pubblico pagante e non pagato, che era predisposto a ridere ma che bisognava davvero far ridere...»

Vedo una totale disaffezione nei confronti della cultura. Anche a scuola dove, sia gli studenti sia gli insegnanti, mi sembrano rassegnati al fatto che la cultura e la conoscenza sono superflue

Che difficoltà ha incontrato nel portare avanti questa sua filosofia artistica?
«All’inizio è stato difficile, benché Zelig, come detto, avesse fatto conoscere la mia faccia ovunque. E questo a causa dell’altro lato della medaglia. Ossia che molti teatri, soprattutto quelli importanti, non mi volevano proprio perché venivo da Zelig, in quanto ritenevano che, a parte tre-quattro nomi che pur frequentando la tv erano noti per la una comicità intelligente, tutti gli altri fossero dei guitti che non avevano niente da dire se non battute scontate e un umorismo di pancia. E non è stato facile far cambiare idea a queste persone: ci è voluta tanta caparbietà, tenacia e soprattutto spettacoli che si discostavano dal mainstream tv. Alla fine però ce l’abbiamo fatta, siamo riusciti a conquistare spazi in teatri importanti e con riscontri notevolissimi. È stato un lavoro duro, insomma, ma che alla fine ha pagato».

Bisogna dire che l’ostilità di cui parlava da parte dei teatri «seri» nei confronti della comicità televisiva, non era così immotivata....
«È vero: la tv ha rovinato la comicità. Bastava una battuta azzeccata per arrivarci, e una volta arrivato lì facevi un libro e andavi in teatro a riproporre sempre le stesse cose. Fortunatamente adesso le cose stanno cambiando».

Vuol dire che ritiene l’odierna scena comica italiana interessante?
«C’è stata un’evoluzione e c’è un movimento notevolissimo, un sottobosco molto attivo. Che però oggi, non avendo più le facili casse di risonanza di cui noi abbiamo goduto tanti anni fa ( sono 27 anni ormai che sono sulle scene...), deve costantemente rinnovarsi e reinventarsi per poter conquistare degli spazi. E questo continuo rimettersi in gioco non può che fare del bene agli artisti».

Torniamo al suo spettacolo nel quale pone l’accento sulle difficoltà della scuola e sul dismoramento nei confronti della cultura. Crede che la situazione sia davvero così grave?
«Purtroppo si. Quello che vedo è una totale disaffezione nei confronti della cultura. Anche nella scuola dove, sia gli studenti sia – ahimé – gli insegnanti, mi sembrano rassegnati al fatto che la cultura e la conoscenza sono superflue perché tanto ci sono mille opportunità e possibilità di avere dei colpi di fortuna grazie ai quali arrivare alla fama e alla ricchezza. E, come dico nel mio spettacolo, questo è un modo di pensare che noi adulti abbiamo instillato nei giovani. Credo che la mia generazione abbia fatto dei danni epocali e spero che i ragazzi abbiano la forza di riprendersi in mano il futuro».

Futuro nei confronti del quale è più ottimista o pessimista?
«Io sono sempre stato tendenzialmente ottimista anche se, devo ammetterlo ogni anno lo vedo lentamente scemare. Spero tuttavia che i ragazzi di oggi riescano a ridarmene un po’. Magari prendendo spunto dalle mie divertenti riflessioni. Credo infatti che una sana e intelligente risata possa essere un ottimo aiuto anche per risalire dalla china sconfortante che abbiamo imboccato».