«Gli echi manzoniani del Voltamarsina»

Eravamo abituati a pensare che la prosa del Novecento, archiviata con i suoi tanti –ismi, non potesse più riservarci grandi sorprese. Dai primi anni Trenta ci arriva invece, nella benemerita collana «La rondine» di Dadò, che si è imposta come vetrina di grande rilievo per la letteratura della Svizzera italiana, Il Voltamarsina romanzo che in Italia gli archivi hanno bellamente ignorato, ma forte di un buon successo ticinese, da quando apparve a dispense sul quotidiano «Popolo e Libertà». Francesco Alberti, l’autore, sacerdote orginario di Bedigliora, nel Malcantone, del quotidiano era direttore: vi chiamò a collaborare Luigi Sturzo, rimasto senza voce nell’Italia di Mussolini, e fece barriera contro le sirene del regime, che nelle terre di confine arruolò qualche sparuto fanatico. Resta celebre il suo altolà ai fascisti ticinesi, che in marcia verso Bellinzona volevano invadergli la casa: «Vengano pure: il primo che si fa avanti lo butto giù dalle scale». Se la sua popolarità crebbe, in quegli anni difficili, con la predicazione radiofonica domenicale, e il suo impegno democratico lo ha reso degno di essere ricordato nel Giardino dei Giusti di Lugano, è la sua penna davvero notevole a raccomandarlo ora a un pubblico più vasto. Il Voltamarsina esce un paio d’anni dopo Gente in Aspromonte di Alvaro e un paio d’anni prima di Tre operai di Bernari, romanzi di un «diverso» Novecento, che anche in Italia attende nuovi lettori. Ma si apparenta a un filone narrativo che sembra essere un proprium del Novecento ticinese, come spiega il curatore, Flavio Catenazzi, nella sua documentata introduzione, preceduta da una breve ma densa nota biografica su Alberti di Davide Adamoli. A Catenazzi (che ricordiamo anche come curatore del volume di apertura della «Rondine», Signore dei poveri morti di Felice Filippini, nel 2000), abbiamo rivolto qualche domanda, in occasione di questo importante recupero, e in attesa di altre nuove da questo suo campo d’indagine.
Flavio Catenazzi, come colloca Il voltamarsina nel panorama della narrativa ticinese?
«Il Voltamarsina esce nel 1932, dieci anni dopo Il libro dell’alpe di Giuseppe Zoppi, e sette dopo Tempo di marzo di Francesco Chiesa. Da questi romanzi Alberti prende le distanze: non gli interessa il genere, cioè il racconto memorialistico a carattere autobiografico. E rifiuta l’evangelico idillio della vita contadina e di tanta produzione rusticale ottocentesca e di inizio Novecento. Profondo conoscitore della nostra realtà e della nostra storia, opta per un romanzo storico sui generis, in cui alla rappresentazione della vita del suo Malcantone si affiancano digressioni e chiarimenti storico-politici, volti a ricostruire lo spirito di un secolo: di qui le pagine gustosissime sulle votazioni del 1905, con gli intrighi cui ricorsero i due partiti tradizionali in lizza per il potere».
Nel Voltamarsina la trama è centrata sulla tormentata vicenda di un amore contrastato: è fin troppo esplicita la lezione manzoniana...
«La trama cerca grandi effetti ma non riserva sorprese: ripropone infatti, con qualche variazione, la vicenda dei Promessi sposi, considerati con particolare interesse nei programmi per l’insegnamento dell’italiano nel Seminario frequentato dall’autore. Il commento puntuale ai passi più significativi era prassi corrente. Fa pensare a Manzoni appunto la vicenda di due promessi sposi, la cui unione è ostacolata da un antagonista. Solo dopo numerose traversie il bene trionferà sull’iniquità. Il contatto con i Promessi Sposi è evidente anche in Diavolo d’una ragazza, del 1939, dove troviamo anche l’inganno del matrimonio clandestino. È interessante osservare che il testo di riferimento dell’autore non è solo la Quarantana, ma anche il Fermo e Lucia, di cui circolavano pagine scelte nell’antologia curata da Giovanni Sforza nel 1905. Anche lo stile riconduce talvolta a quella prima versione».
In Ticino, in quegli anni, ci sono altri preti autori di romanzi? O meglio: si può parlare di una narrativa cattolica, per il Ticino, e con quali elementi distintivi?
«Nei Fondi dell’Archivio diocesano di Lugano ho reperito una serie di raccolte di versi, di romanzi e novelle, scritti da sacerdoti: penso a Carlo Vanoni, insegnante al Seminario di Lugano nell’ultimo decennio dell’Ottocento e autore di due libri di poesie, o a Edoardo Torriani, priore di Mendrisio, che nel 1924 diede alle stampe poesie d’occasione per ricorrenze liturgiche. Sul fronte della narrativa, oltre all’Alberti c’è Riccardo Induni, parroco di Vacallo, che tra il ’38 e il ’41 pubblicò ben tre romanzi (Pianuro, Valchiara e Valloscura), e ancora l’arciprete di Chiasso, Eugenio Bernasconi, con il libro di memorie Con i contadini. Questi autori non sono degli sprovveduti, ma manifestano ambizioni da scrittori, sono sensibili alla costruzione della trama, all’uso abile dei flash-back, con calcolati richiami interni rivolti chiaramente a un pubblico di modesta cultura. Fondati sugli stessi nuclei vitali (l’amore contrastato, l’attaccamento alla propria patria, ecc.), questi romanzi di preti rivolgono l’attenzione al mondo agricolo, ne esaltano la semplicità e le innate virtù, che riescono a compensare, con la fiducia nella Provvidenza, le tante disgrazie, ma anche le prepotenze dei padroni e dei ricchi proprietari terrieri: un problema questo che i preti vivevano quotidianamente e talvolta affrontavano, facendosi mediatori di contese annose».
Disparità sociali, soprusi dei potenti, i più poveri costretti a emigrare per sopravvivere: come si schierano questi autori davanti a problemi così rilevanti?
«Questi romanzi di preti si presentano come un timido e riverente contributo all’azione sociale cristiana promossa dalla Chiesa. Essi divulgano infatti lo spirito della Rerum novarum di Leone XIII (1891), schierandosi appunto dalla parte dei poveri e dei bisognosi e ammonendo potenti e padroni perché non commettano ingiustizie: in Pianuro dell’Induni, per esempio, ecco la figura del Ronchi, sfruttatore dei poveri e dei deboli, che tiranneggia i suoi contadini minacciandoli di licenziarli se non avessero prodotto di più. Arriva addirittura a insultarli: “Siete voi, gente rozza, che non avete cura della roba”. E per questa sua cupidigia della roba e sete del denaro, geminas vitae pestes, come si legge nell’Enciclica, il destino gli riserva, come pena del contrappasso, di morire di fame e in solitudine».
Questo vale anche per lo stesso Alberti? È anche lui inquadrabile entro questi schemi?
«La voce dell’Alberti, così come quella di altri sacerdoti autori di romanzi, si leva forte a difendere i valori evangelici della bontà, del perdono, esorta alla fiducia in quella Provvidenza che, con parole che riportano ancora all’Enciclica, “se cura di nutrire l’uccello dell’aria e di vestire il giglio del campo, non abbandonerà certamente l’uomo”. Ferma invece la condanna della violenza, “mentre di lontano rumoreggia il temporale orrendo”, scrive l’Alberti in una sua predica, riecheggiando il “rumoreggiare sinistro dei cannoni”, che nel Voltamarsina il soldato Tomaso sente distintamente provenire dal fronte dei Vosgi, la notte di Natale del 1914. Insomma, questi autori sottolineano l’aspetto più duro dell’esperienza cristiana, calato in un periodo di forti tensioni e disuguaglianze sociali. Mostrandosi sensibili a questa problematica, essi non si identificano però con il sogno di una Internazionale socialista, ma col disegno di un cattolicesimo sociale, rispettoso dei rapporti di classe, quello che appunto veniva promosso allora dalla Chiesa. E allora, dato che la natura ha voluto che nel civile consorzio “le due classi convivano tra loro in concordia”, l’Alberti, come l’Induni, stringe il più saldo dei legami unendo in matrimonio fanciulle di umili condizioni con compaesani che il lavoro onesto ha trasformato in piccoli possidenti. Tutto nel segno della mira vis del cristianesimo».
L’intesa narrativa quasi perfetta tra autore e lettore
Il Voltamarsina, diciamolo subito, non strizza affatto l’occhio agli sperimentalismi che si affacciavano allora in Europa: guarda invece indietro, con un plot costruito sul modello manzoniano del matrimonio negato, con vicende ben radicate nella realtà marginale del microcosmo ticinese (il borgo di Collinazza, nel Malcantone, da identificare con la stessa Bedigliora) e proiettate quindi sul più ampio orizzonte dell’esilio cui si rassegna il protagonista, Tomaso, in cerca di fortuna e lavoro in Piemonte e in Sudamerica. I fatti riportano al Ticino terra di migranti («pane e morte se ne trovano dappertutto», p. 141), tra il dicembre del 1904, alla vigilia delle elezioni governative che vedranno il brusco mutamento di casacca di Tomaso, da liberale a conservatore (ma il lettore non potrà non capire, anzi), e i primi anni di guerra.
Far incontrare la Storia (con la maiuscola) e le sue spietate leggi economiche con le speranze e le delusioni di queste «genti meccaniche», come avrebbe detto il più volte evocato Manzoni, era un rischio non da poco. Ma − e anche qui sta la sorpresa − niente melassa n paternalismi. L’epos rusticale del Voltamarsina monta sicuro e lento, capitolo dopo capitolo, costruendo un’intesa quasi perfetta tra autore e lettore: l’amore cocciuto di Tomaso e gli errori di Rosa (una «traviata» di modernissima profondità psicologica), il silenzioso eroismo di zia Mina, l’energico buon senso del parroco (altro cimento pericoloso per il narratore) e la stessa folla dei comprimari, che la mano ferma dello scrittore fissa in tratti mai banali, qualche volta memorabili (il «Mendrìs», compagno d’armi di Tomaso), a fine lettura si abbandonano con dispiacere.
Le stesse (rare) moralità che l’autore distilla non ci compaiono innanzi nemmeno per tali, tutt’altro (come quando viene accennato il terrore che accompagnava lo spostamento del corpo d’armata di Tomaso nella Svizzera interna: «Tanto che il cappellano... udito che fra quella gente correva l’opinione che i ticinesi portassero tremendi coltelli, pregò gli stessi parroci di voler avvertire la popolazione che anche i ticinesi erano cristiani», p. 239).
Il Voltamarsina, romanzo senza idillio, guarda sì indietro, ma per ricordarci che nel passato è il senso del nostro presente, e lo fa con la misura aurea di una prosa sobria e asciutta, coinvolgente ma mai esibitoria né apodittica, che sa conformarsi, nei dialoghi, alla nativa ingenuità −ma anche all’ironia e alla ferocia − della coralità cui dà voce. Da qui il ricorso al dialetto, declinato con naturalezza anche in proverbi e locuzioni, tanto da fare del romanzo una fonte documentaria di non poco interesse (si noti che spesso l’autore si obbliga a chiosare in nota i riferimenti più oscuri).