Gli scandalosi virtuosismi di Hermann Burger

«Lo scrittore non dimentica mai, serba rancore in eterno». Così l’argoviese Hermann Burger. Nel suo intendere l’avvitarsi del risentimento infinito, il prevalere delle ruggini, il covare desideri di rivalsa, il trascorrere giorni senza perdono e senza oblio, la considerazione autobiografica bene si presta a circoscrivere la drammatica parabola vitale di questo autore svizzero indubbiamente fuori dell’ordinario. Nasce a Menziken nell’estate del 1942, cresce a Burg, dice addio alla vita a Brunegg giusto trent’anni fa (il 28 febbraio 1989) con una dose massiccia di barbiturici. Non ha ancora cinquant’anni, Hermann, ma già il suo nome ha dimostrato talento abbastanza per mettersi in risalto nel contesto letterario di lingua tedesca, interessare case editrici come S. Fischer e Suhrkamp, ottenere riconoscimenti e premi. Ci riesce innanzitutto perché si è incaponito proprio nella questione linguistica. Selezione accurata dei vocaboli, scelta precisa delle espressioni, ordinamento puntiglioso delle frasi, virtuosismi preziosi: la forma della sostanza, insomma. Poi perché i suoi argomenti, le tematiche, i soggetti si differenziano dai filoni consueti esplorati dai consueti autori. Inoltre li tratta in maniera tanto insolita, ardita, sarebbe da dire «scandalosa», che riesce a trasformarli in altro: a renderli innovativi, evocativi, predittivi. La cura morbosa dei dettagli gli costa, per ogni lavoro, anni di sudore e lacrime, studio e ricerche sul campo. Tra tanta meraviglia stilistica e narrativa, quello che non s’incrocia è la gioia; il divertimento scherzoso, l’allegria spensierata, i misteri gaudiosi rimangono fondamentalmente assenti. Burger, prostrato dal disturbo bipolare e dalla depressione grave, abitua alle atmosfere cupe e funeree, cerebrali, malinconiche, dark. Sciorina ansia, sofferenze, disagi. Compie indagini autoptiche sui timori, i nervosismi, le fissazioni, le delusioni, le incertezze. Purtroppo al lettore italiano manca l’opportunità di conoscerlo e approfondirlo, di addentrarsi nel suo universo di ipotassi, paratassi, descrizioni maniacali, protagonisti e comparse alquanto singolari. In traduzione sono usciti soltanto due volumi di racconti: Servo d’orchestra (pubblicazione di Marcos y Marcos che compie quasi tre decenni) e abbastanza recentemente, per L’Orma editore, L’illettore. Entrambe le versioni sono curate da Anna Ruchat, che ha studiato filosofia e letteratura tedesca a Pavia e Zurigo e si è cimentata pure con Bernhard, Celan, Sachs, Dürrenmatt, Herzog, Lavant. Servo d’orchestra ripropone un libro del 1979. Diabelli (il titolo originale) è un mago, un «illusionista disilluso» che vuole scomparire lui stesso, mettere la parola fine a una carriera brillante però futile, inutile. Rivela l’intento nella lettera al mecenate, il barone Harry Kesselring. Dai giochi di prestigio con le carte e con gli oggetti passa dunque a quelli con le parole. Nell’insieme c’è più mascheramento che svelamento di trucchi. Il servo è invece un suonatore mancato, analfabeta della musica, ignorante delle note, anaffettivo della melodia. Quanto all’illettore (Blankenburg, del 1986), è un malato affetto dalla misteriosa patologia che gli impedisce di comprendere i caratteri tipografici, di leggere. L’unica possibilità che ha è scrivere. Indirizza missive terapeutiche a una principessa, narrando la propria vita di bibliomane sconvolto dai testi a stampa e da una diagnosi infausta. Frequentato il liceo ad Aarau, Hermann Burger studia architettura, germanistica e storia dell’arte a Zurigo. La tesi di dottorato sul poeta Paul Celan, notabile per versi agghiaccianti come «il Signore spezzò il pane, il pane spezzò il Signore», ha motivi di attualità e di meditazione. Docente al Politecnico federale, l’argoviese firma su diverse testate come critico e diviene redattore del supplemento culturale dell’«Aargauer Tagblatt». Schilten, del 1976, è il romanzo che gli dona il successo. Si tratta, recita il sottotitolo, di un «rapporto scolastico per la conferenza degli ispettori». Riguarda il professor Armin Schildknecht. Piuttosto che istruire gli allievi sulla solita minestra, preferisce educarli alle tradizioni cimiteriali, all’arte della tumulazione, alla scienza della morte, al Niente, al Nulla che li aspetta. Nel 1982 esce Die künstliche Mutter, opera psichiatrica e psicosomatica ambientata nelle stanze, negli ambulatori, nei corridoi di un istituto sanitario dove un esperto di letteratura e glaciologia viene ricoverato a causa di tremende «emicranie genitali». Sulla falsariga di Wittgenstein, ecco in seguito i 1046 aforismi sinistri del Tractatus Logico-Suicidalis. Magari non precipitano nell’apologia del levarsi di torno, di sicuro rappresentano tanatologia pura, per buona sorte sbianchettata qua e là da riferimenti sarcastici. Brenner, del 1989, è una tetralogia in cantiere che può consacrare le doti e le ambizioni di Burger; si fermerà a due volumi, di cui uno postumo. Se tutto è evanescente e instabile, se trionfano il precario e il provvisorio, se nulla è duraturo e definitivo, allora tanto vale spendere subito i propri risparmi e acquistare - come fa il narratore della storia - una splendida, fiammeggiante Ferrari. Tanto vale bruciarsi, giocarsi la carriera, stracciare relazioni, scansare responsabilità, spassarsela e fumare sigari. Non esiste margine per la fiducia, per la progettualità, per il futuro, per i sogni. La casualità governa il mondo, perfino nell’ideazione artistica. Blankenburg, ammette lo scrittore, nasce semplicemente grazie al biglietto augurale ricevuto in clinica da una critica letteraria: «Saluti da Blankenburg». Ci vuole considerevole genio creativo, comunque, per leggervi tra le righe una trama, per scorgervi un piano editoriale, per farne una novella. Schilten trae origine dalla visita a un amico insegnante di Schiltwald. Non deve fare scuola, quel giorno, perché gli studenti si sono recati alla «abdicazione», definizione elegante per la cerimonia del commiato, il rito delle esequie, la liturgia della sepoltura. Si cedono scettro e corona, si abdica al regno terrestre. Ma per cosa? Il riduzionismo burgeriano non contempla un rinvio metafisico, un’escatologia, una spiritualità trascendente, l’ipotesi di un Altrove. È fermo alla parte angosciata e debole, tormentata e fragile, malamente invecchiante e marcescibile del genere umano. Il corruttibile, quando non il corrotto addirittura, fa da padrone assoluto. Il tragico impera. Si è affiancato Burger a un’orrida ripugnanza presente in Kafka, a un romanticismo privo di romanticherie in Goethe, a un tenebroso sconforto in Dostoevskij, a una ricerca di tempo perduto in Proust. Tuttavia il suo lascito, la sua fama e la sua dimensione popolata di dannati, sconfitti, disperati, disadattati, afflitti e inquieti sembrano renderlo più vicino, somigliante, contiguo al ritratto perfetto di un autore maledetto.