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«Ho gridato io sono Zeus e mi è passata la vergogna»

Il giovane protagonista Francesco Di Napoli racconta la sua esperienza in «La paranza dei bambini»
Francesco Di Napoli (in piedi) e Pasquale Marotta in La paranza dei bambini. (Foto Filmcoopi)
Fabrizio Coli
21.02.2019 06:00

Ne abbiamo parlato la scorsa settimana, quando La paranza dei bambini è stato presentato in concorso alla 69. Berlinale. Alla fine ha conquistato l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura. A firmarla, Roberto Saviano, autore del romanzo da cui il film è tratto, dal regista Claudio Giovannesi e lo sceneggiatore Maurizio Braucci. Adesso il film - parlato in napoletano e sottotitolato - esce nelle nostre sale, un’opera cinematografica riuscita, realizzata con sensibilità e attenzione, che ci porta nelle vie dei quartieri popolari di Napoli, a seguire l’ascesa di un gruppo di giovanissimi criminali, una paranza di bambini, appunto.

A guidarla è Nicola, interpretato dal quindicenne Francesco Di Napoli. Attore non professionista, come gli altri giovani del film, Francesco è stato scelto fra 4000 ragazzi. «Cercavamo qualcuno che avesse tre caratteristiche - ha raccontato il regista durante l’incontro con la stampa a Berlino -. Un volto innocente, lontano dall’iconografia criminale. Poi tutti dovevano avere un’esperienza diretta, conoscere le tematiche del film, non appresa dai racconti. Infine cercavamo un talento innato per la recitazione che nel nostro caso doveva essere la capacità di mostrare i sentimenti dei personaggi perché il passaggio dal libro al film ha privilegiato l’aspetto emotivo, la fragilità dei personaggi. Tutte queste tre caratteristiche erano presenti insieme in solo uno di loro: Francesco».

«Non è stato il classico casting dove i ragazzi andavano da loro - ci ha raccontato inveceil giovane protagonista - Erano loro che andavano nei quartieri di periferia di Napoli, come nel mio caso il Rione Traiano, a cercare i ragazzi ai muretti, nei bar nelle piazze. Vuoi fare un film ? chiedevano. E incontrarono i miei amici. Videro anche la mia foto e chiesero chi ero. Sta lavorando al bar, risposero. Così venero a trovarmi e mi chiesero se volevo fare un provino per un film. Io mi dissi ma chi sono ’sti matti? Cosa vogliono da me? Non avevo mai visto nulla del genere, mai capito di cinema, di film, non potevo mai immaginare che era una cosa così seria. E infatti al primo provino non mi presentai! Eh si perché alla fine, come il resto dei ragazzi, non ci credevo. Poi Claudio venne a casa mia. Io non lo guardavo neanche in faccia perché ero troppo timido. Alla fine mi portarono a fare un provino con una coach. Mi misero su una sedia e le mi disse urla “Io sono Zeus!”, tipo davanti a venti ragazzini! Io ero pieno di vergogna. Mi chiedevo, ma questo è un provino o mi state sfottendo? Poi l’ho fatto, ho urlato “Io sono Zeus!”. Da lì la vergogna è scomparsa. Quella cosa mi è servita tanto. Tutti i sentimenti che metto in scena vengono da quell’“Io sono Zeus”».

Intenso, credibile, Francesco - o meglio, Nicola - diventa capo di un gruppo di coetanei. Quasi come un gioco cominciano a lavorare per i boss del quartiere. A sorreggerli anche una distorta idea di giustizia: il pizzo non lo devono pagare i commercianti di lì. La cosa, inevitabilemente si trasformerà in una guerra. Ma, lontano dallo stile della seria Gomorra, da quelli del film di genere, è proprio la loro perdita dell’innocenza il fulcro del film, raccontata con attenzione da Giovannesi che si rifà alla lezione del neorealismo ma anche, per sua stessa ammissione, a certi teen movies degli anni Ottanta. Fra i morti ammazzati c’è una storia d’amore per il protagonista e uno spaccato di quotidianità dove a colpire è il vuoto di valori e di sostegno che circonda questi ragazzi. Di scuola non se ne parla, di famiglia poco. Chiediamo a Francesco se è davvero così. «C’è chi pensa, come in questo caso, che le persone che vanno a lavorare siano stupide. Chi ha la pistola può avere la macchina, i soldi. È tutta così la mentalità di questi giovani. La scuola? Potrebbero anche andarci ma ci vanno due giorni su sette, non stanno a sentire i genitori e a volte il genitore o è in carcere o non c’è proprio, oppure è assente per motivi di lavoro». «Io - conclude - ho fatto il pasticcere perché i miei genitori non avevano molte possibilità di farmi andare avanti, sia con gli studi, sia con il calcio che ho dovuto abbandonare perché non ce la facevo più a pagarlo. Ho avuto questa possibilità del film e l’ho sfruttata: non per motivi di guadagno, ma per andare avanti, per diventare una persona più adulta, per diventare una persona più matura. Io sono cresciuto durante questo set». Come dire, di occasioni di riscatto ce ne sono anche senza impugnare un’arma.