Calcio e televisione

I gattacci del Sunderland sono tornati: e fanno ancora schifo!

Senza partite, senza coppe e senza campionati: il tifoso medio non sa più che pesci pigliare, ma per fortuna Netflix ci regala una nuova stagione della docu-serie divenuta cult
Una veduta aerea di Sunderland con lo Stadium of Light. © Shutterstock
Marcello Pelizzari
03.04.2020 06:00

Industrie e cantieri navali. Cielo grigio, quasi sempre grigio. E birra, ovviamente. Tantissima birra. Altrimenti come la combatti quella depressione avvolgente? Benvenuti a Sunderland, nel nord-est dell’Inghilterra. Ci risiamo. L’assassino torna sempre sul luogo del delitto, si dice. E così ha fatto Netflix: dopo aver documentato le imprese al contrario dei Black Cats (i gatti neri, nel soprannome un destino) nella stagione 2017-18, i produttori della serie hanno immortalato anche l’annata successiva. Un’annata, va da sé, altrettanto disastrosa per non dire peggio. Sunderland ’Til I Die 2 riparte dal mancato ritorno nel gotha pallonaro. Peggio, con molta nonchalance i gattacci sono riusciti a compiere un altro salto mortale all’indietro. E così, nel giro di pochi anni sono passati dalla Premier alla League One. Che ansia, ragazzi. La serie riparte, altresì, da un rinnovo dei vertici societari. Via il proprietario Ellis Short e l’amministratore delegato Martin Bain, dentro Stewart Donald e Charlie Methven.

Methven protagonista assoluto

Molti personaggi chiave della prima stagione, ad ogni modo, sono ancora lì. A cominciare da Peter, il tassista che non si perde una partita da quando ha memoria. E poi Joyce, il cuoco, e il capitano della squadra George Honeyman. Ma è proprio Methven a rubare ogni scena e, di fatto, ad emergere come star assoluta della seconda stagione. Soprattutto quando la butta sul piano economico. «A livello operativo – spiega nel primo episodio – questo business perdeva e pianificava di perdere fra i 30 e i 40 milioni di sterline l’anno». Pausa, da attore consumato. E ancora, disegnando linee sulla lavagna: «È un business fallito e incasinato e se voi, ragazzi, non lo capite allora non ce la farete mai in questo mondo».

Per ridare vigore al club e alla squadra le prova tutte. Perfino una rivoluzione musicale allo Stadium of Light. Sin dall’apertura dell’impianto il brano scelto per accompagnare l’entrata in campo dei giocatori è stato Dance of the Knights di Sergei Prokofiev. «Nuovo inizio, nuova stagione, nuovo sound» racconta Methven. Ne parla perfino con lo speaker, Frankie Francis. «Hai presente i rave?», gli dice fra il serio e il faceto.

Donald, invece, si guadagna il suo quarto d’ora di celebrità durante la finestra invernale di mercato. Quando, di fronte ad una valutazione di poco superiore al milione di sterline, ne tira fuori tre per accaparrarsi il nordirlandese Will Grigg (quello che «andava a fuoco» durante Euro 2016, ricordate?). Una catastrofe.

Quella sofferenza (sportiva) quotidiana

Ecco, laddove la prima stagione di Sunderland ’Til I Die si concentrava sull’amore e sull’orgoglio, sentimenti ben rappresentati dal rapporto (strettissimo) fra club e città, la seconda è un continuo e imperterrito ricordare cosa significhi (e quanto gravoso sia) mandare avanti una società calcistica. Per giunta sgangherata. I soldi, sì. Quelli spesi sono tanti, troppi. Quantomeno per un club di League One, la terza categoria della piramide inglese. Solo di massa salariale, i giocatori costano 34 milioni di sterline. Assurdo.

C’è, ovviamente, spazio anche per il calcio giocato. La stagione 2018-19 e, di riflesso, quella immortalata da Netflix si apre e si chiude contro il Charlton. Il finale, amaro, è il playoff promozione perso a Wembley. Quella sconfitta costa, parecchio, in termini economici. Ed emotivi. La sofferenza fra i tifosi è, se possibile, ancora più viscerale rispetto alla relegazione magistralmente dipinta nella prima stagione. Ed è proprio quella sofferenza, quotidiana se non eterna, a rendere questa docu-serie un piccolo, meraviglioso gioiello. Da guardare e riguardare, soprattutto di questi tempi.

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