I paesaggi dell’anima dell’«Elisir d’amore»

Il Preludio disegna merletti di fiati, imperativi di marcia, ritmi di danza davanti al velario che propone un vaso dal quale escono una enorme partitura e nuvole di cartoline portate dal vento. Tra un velo e un velario si impongono poi enormi alberi fronzuti e ricurvi che aprendosi, chiudendosi, intrecciandosi sono il Leitmotiv della scenografia. Sempre dominati dall’arguta chiesina dalle scale sghembe issata su un cucuzzolo-panettone con porta e finestrelle che osservano stupite le stranezze della scena sottostante. Lo storico allestimento di Tullio Pericoli (un’idea di Pereira per Zurigo 1995 ripresa nel 2015 con un singolare flash mob all’aeroporto di Milano-Malpensa, re delle incisioni ad acquaforte e acquatinta, propone una gamma cromatica misteriosa, orientaleggiante, miniata. Nel gioco non mancano libri, frutti, mele, pere, e tutti i figli del regno vegetale. Insomma un trionfo della natura, etica e morale. La cornice fa pendant con i costumi da fiaba, tutti pon pon, stivaletti con bottoncini, pennacchi della guarnigione a forma di fico d’india. Omaggio senza uguali a un Donizetti (Milano, la Connobiana,1832) che si colloca a metà tra il buffo di ascendenza napoletana e il pathos che domina la stagione romantica. Quanto Rossini nell’Elisir d’amore! Ma anche che respiro verdiano e soprattutto belliniano (La Sonnambula nasce al Carcano pochi mesi prima). Il belcanto si scontra con l’elegia del larmoyant e i sospiri del melodramma ottocentesco. E se comica è la cavatina d’entrata di Dulcamara, la coppia Adina-Nemorino pulsa di vibrazioni sentimentali. Basti la struggente poesia della romanza Una furtiva lacrima intonata nel finale da Nemorino. L’impianto è belcantistico, i recitativi poggiano sul fortepiano, comicità e tenerezze si alternano. C’è tanto Rossini, è vero, ma anche tanto Donizetti che si espande negli stacchi lirici. La partitura dalle mille anime cambia in continuazione colore e umore, costringendo il direttore a un vero tour de force.

La Scala è presa d’assalto da un pubblico internazionale che non fiata, applaude a scena aperta e chiusa, segue con attenzione la lettura del giovane direttore Michele Gamba (già assistente di Barenboim e Pappano), gli interventi del Coro, la resa canora dei singoli. E se nessuno, quanto a ugole, può gareggiare con la miracolosa coppia Freni-Pavarotti (1979), ciascuno ha il suo perché. Rosa Feola-Adina, già Ninetta nella Gazza Ladra e Norina nel Don Pasquale, è un giovane e richiesto soprano che qui declina la sua vocina bella, agile e maliziosa con gran padronanza del ruolo. Il tenore René Barbera-Nemorino, Ernesto nel Don Pasquale di Chailly e ormai un giramondo, inizia titubante con la cavatina «Quanto è bella, quanto è cara», ma poi si fa cuore regalando in crescendo vocalità sicura e teneri accenti fino a quella «furtiva lacrima» che illanguidisce sotto un cielo di lampadine che paiono stelle. Il baritono lucchese Massimo Cavalletti, irresistibile Belcore, non tradisce la sua fama di apprezzato habitué scaligero. Bene Francesca Vitale-Giannetta, superbo l’imponente Ambrogio Maestri, il figlio dell’oste della Bassa scoperto da Muti per Falstaff, che negli anni ha affinato voce, sentimenti, teatralità e qui è un Dulcamara autorevole e irresistibile. La regia di Grischa Asagaroff, in duo con Pericoli dall’inizio dell’avventura, muove con arguta sapienza singoli e masse. Alla fine pieno gradimento per tutti, in barba alle riserve degli addetti più ortodossi. Di questo Elisir sogno, volo nella fantasia e nella bellezza restano nel cuore soprattutto i paesaggi dell’anima di Pericoli. E, ça va sans dire, Donizetti.