Storia

I segreti delle tre cime che hanno costruito la Svizzera

Con un saggio arguto e sorprendente l’esperto di montagne Paolo Pace ripercorre tra aneddoti e dotte curiosità l’epopea di Eiger, Mönch e Jungfrau, simbolo paesaggistico della Confederazione e culla dell’industria turistica mondiale
©Shutterstock.com
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
10.02.2021 06:00

Potrebbe anche essere una questione di prospettiva o un sottile gioco di specchi (chi guarda chi? E perché?) ma di sicuro il caso c’entra poco. Non è insomma soltanto una questione di panorama se da Palazzo federale, nel cuore politico della moderna Confederazione, anche volendo non è possibile far finta di non vederli. L’Eiger, il Mönch e la Jungfrau vegliano simbolicamente sulla capitale, sul luogo dove vengono prese le decisioni, sulle persone che decidono del nostro futuro e dunque sul Paese tutto. Molto più presenti e vicine di quanto lasci supporre la sessantina di chilometri in linea d’aria che separa le tre cime alpine più famose del mondo dalla Bundesterrasse, l’Orco, il Monaco e la Vergine sorvegliano la Svizzera anche perché in gran parte l’hanno costruita loro. E non è soltanto una metafora da svizzeromaniaci o un’esagerazione retorico-letteraria. Lo si capisce bene dopo aver letto l’utimo libro che il milanese Paolo Paci, scrittore e giornalista di viaggio nonché esperto di montagna, (che avevamo imparato ad apprezzare già una ventina di anni fa col bellissimo Cuochi, artisti e visionari in viaggio dal capoluogo lombardo a St. Moritz via Chiavenna e Bregaglia) dedica nel titolo alla sacra trimurti dell’Oberland bernese ma che in realtà, dal Gottardo alla Fossa degli orsi, tanto racconta, nel bene e nel male, della creazione, dell’immaginario e dello sviluppo moderno del nostro Paese.

«Stile alpino»

Perché l’Oberland bernese è davvero il luogo dove tutto è cominciato. Questo libro, ironico, arguto, dotto e disincantato è un viaggio (alla Paci, diremmo) tra cime, valli, villaggi e personaggi della Belle Époque alpina: cent’anni di sorprendente sviluppo economico e sociale, dalla metà del XIX alla metà del XX secolo, che hanno radicalmente mutato la percezione delle Alpi svizzere (verso l’esterno ma anche all’interno del Paese), facendone la locomotiva dell’industria turistica internazionale. Dalle prime spa ai grandi alberghi, fino all’invenzione di uno «stile alpino» artificiale che è diventato standard in tutto il mondo. E soprattutto con l’alpinismo, vero carburante di questo sviluppo, dalle pionieristiche conquiste della Golden Age alla corsa sfrenata alle pareti nord degli anni Trenta. Un paesaggio letteralmente inventato, creato, conservato ma (talvolta anche violentato) da cui nasce la Svizzera moderna, baricentro, anche per quanto riguarda i trasporti, della più grande rivoluzione dell’Antropocene. D’altro canto i tre gioielli alpini di roccia e ghiaccio sono incastonati in un territorio che senza alcun dubbio è tra i più spettacolari al mondo, ricco di laghi, fiumi, valli, boschi e alpeggi, un’infinità di vette secondarie ma non per questo meno scenografiche, ghiacciai, forre, gole, cascate e paesaggi da cartolina con villaggi pittoreschi, castelli monumentali, hotel da sogno, attrazioni d’ogni sorta e innumerevoli altri elementi geografici, morfologici, antropici. Insomma, un piccolo-grande mondo montano che forse solo in Svizzera si può trovare, o meglio, che solo gli svizzeri hanno saputo inventare.

God save the Queen

Con la complice istigazione dei sudditi di Sua Maestà britannica visto che, come giustamente ricorda Paci, «sono gli inglesi i primi a esportare l’idea di bellezza romantica del paesaggio. A farne un’industria: l’industria del turismo. Britannici i primi esploratori delle Terre Alte, i primi scalatori delle cime, i primi a scrivere e dipingere, a sciare e giocare a curling, a posare binari e scavare tunnel ferroviari, i primi a favorire la nascita di alberghi, dalle rive dei laghi a Interlaken alle altezze dei valichi come la Kleine Scheidegg, fino alle cime panoramiche dei monti, il Rigi, il Pilatus, il Faulhorn. Alberghi che spesso si chiamavano Vittoria, o Regina, perché tutto questo gran movimento economico si sviluppava sotto lo sguardo benevolo della regnante dell’impero britannico». Un microcosmo elvetico fatto di storie, date, eventi, imprese, episodi, cronache con protagonisti personaggi, reali o fantastici, più o meno celebri e comunque tutti quanti in grado di raccontare narrazioni affascinanti in cui Paci ci guida cercando di distinguere l’autentico dall’invenzione, l’originale dall’artificiale, senza dimenticare che anche la stessa creazione a tavolino di un immaginario (che è parte fondante del nostro essere svizzeri e della percezione che di noi si ha nel resto del mondo, Cina e Bollywood comprese) è a sua volta storia e a sua volta si trasforma in epica. Leggendo quasta sorta di diario di viaggio-reportage, consigliatissima in caso di trasferta bernese, si scoprono con sorpresa tanti nomi, eccellenti o meno, che quell’immaginario hanno contribuito a plasmarlo, a rimodellarlo o trasformarlo di sana pianta. Da Leslie Stephen a J.R.R. Tolkien, da James Bond a Mark Twain, da William Turner a Sherlock Holmes, da Paul Klee a Richard Wagner sono tantissimi, nella realtà e nella finzione, i costruttori del mito a sua volta fondante. E non importa se oggi sappiamo che persino la leggenda che lega il nome delle tre cime alla virtù di una fanciulla insidiata da un orco e difesa da un monaco, frappostosi tra i due, proprio autentica e medievale non è. Come scrive Paci di ritorno a Grindelwald, «la Svizzera, vera o falsa che sia, è il Paese più bello del mondo. Tanto quanto la Jungfrau è la montagna più immacolata. Basta volerlo credere». E noi, nel nostro piccolo, a crederlo ce la mettiamo tutta.