Visions du réel

«Ikeshima, la piccola isola abbandonata che somiglia tanto al nostro lockdown»

Il regista ticinese Andrea Pellerani presenta al festival di Nyon il suo documentario «Dreaming an Island» interamente girato in Giappone
Un momento del film che si potrà visionare da venerdì 23 aprile sul sito www.visionsdureel.ch. © AMKA FILMS
Antonio Mariotti
16.04.2021 19:58

C’è anche una produzione ticinese tra i 12 lungometraggi selezionati per il Concorso nazionale della 52. edizione di Visions du Réel, il festival di Nyon in corso online fino al 25 aprile. Si tratta di Dreaming an Island (Sognando un’isola) di Andrea Pellerani prodotto da Amka Films con RSI. Con il 37.enne regista, che ha già alle spalle diversi documentari, abbiamo parlato di questo film interamente girato sulla minuscola isola giapponese di Ikeshima.

Com’è venuto a conoscenza della storia di questo lembo di terra al largo di Nagasaki dove, fino a una ventina d’anni fa, era in funzione un’enorme miniera di carbone?

«Sono anni, anche sull’onda del movimento degli Urban Explorer, che sono affascinato dalle città-fantasma moderne, dove si ritrovano le testimonianze di una civiltà industriale che assomiglia molto al contesto in cui viviamo ma senza la presenza umana. L’idea iniziale prevedeva una sorta di collage di diverse di queste situazioni in varie parti del mondo. Nel 2014 ho quindi intrapreso un viaggio esplorativo che mi ha portato anche in Giappone, dove ero intenzionato a visitare un’altra isola molto famosa: Gunkanjima dove è stata girata una celebre scena del film di 007 Skyfall e che fa parte del patrimonio mondiale dell’UNESCO. Una persona che mi ha ospitato a Nagasaki mi ha però segnalato Ikeshima e, dopo averla visitata, mi sono convinto che fosse il posto ideale per girare il film, perché è un luogo ancora abitato, dove vive un centinaio di persone, anche se all’apice dello sfruttamento della miniera ve ne soggiornavano fino a diecimila».

La presenza degli abitanti è così diventata il fulcro del suo film?

«Sì, perché se il luogo fosse stato del tutto abbandonato avrei potuto solo evocare un passato ormai scomparso attraverso gli edifici abbandonati, ma il tutto si sarebbe esaurito piuttosto in fretta. È più interessante girare in un luogo che è ancora vivo, dove le persone conducono un’esistenza tutto sommato normale in un contesto totalmente surreale, a volte onirico e permeato di una forte nostalgia per un passato che non tornerà più. La chiusura della miniera è percepita dagli abitanti come un fallimento collettivo, una sensazione molto spiacevole nella mentalità giapponese».

La storia di Ikeshima diventa però anche una metafora del mondo contemporaneo: qualcosa del genere potrebbe accadere anche a noi, soprattutto in questo periodo d’incertezza?

«La mia generazione è cresciuta con la consapevolezza che il futuro non sarà roseo: la crescita infinita del sistema economico un giorno si fermerà, mentre dal punto di vista ambientale i problemi sono sempre più evidenti. Nel marzo dell’anno scorso, durante il primo lockdown, abbiamo vissuto una situazione molto simile a quella di Ikeshima: le strade erano deserte e gli edifici che lasciamo come testimonianza del nostro passaggio in pochi decenni sarebbero cancellati dalla forza della natura. Non è il pianeta che ha bisogno di noi ma noi che abbiamo bisogno di un pianeta per sopravvivere. Vedere il mondo senza di noi relativizza l’importanza della presenza umana».

Nel suo film c’è però anche una dimensione di speranza, legata ai due bambini che crescono a Ikeshima e che vanno a scuola come tutti gli altri...

«Sì, la scuola impiega undici docenti per due soli allievi. Ciò è legato alle particolari caratteristiche geografiche di questa regione: ogni insegnante del distretto di Nagasaki è tenuto a lavorare per tre anni su un’isola “remota” e quindi la scuola funziona, ma è chiaro che il futuro di questi ragazzi sarà al 99% lontano da Ikeshima, nonostante gli sforzi per promuovere qualche forma di turismo»