La riflessione

Il Bene è un male in letteratura

Il politicamente corretto, che domina nella produzione libraria contemporanea, finisce per essere un danno per la creatività privando gli autori di quell’elemento di rottura, di quella capacità di smontare il punto di vista comune che, in passato, è sempre stata la loro forza
Roberto Cotroneo
09.06.2021 18:25

Walter Siti è uno scrittore importante. Ha vinto un premio Strega, ha curato le opere complete di Pier Paolo Pasolini, ha insegnato a lungo in molte università. È uno scrittore importante ed è un intellettuale che non si è mai tirato indietro, ha sempre detto quello che pensava, e lo ha fatto con autorevolezza e intelligenza. Da poco ha pubblicato un piccolo libro per Rizzoli che si intitola Contro l’impegno. Si potrebbe definire un pamphlet nel quale sostiene con forza una tesi non troppo condivisa, se non del tutto controcorrente. Il sottotitolo del libro è «Riflessioni sul Bene in letteratura». E il Bene in letteratura è concetto assai complicato, ma ultimamente molto invasivo, indiscutibile. Un Bene che influenza il modo di scrivere degli autori, i libri che i nuovi scrittori presentano agli editori, l’immaginazione letteraria dei prossimi anni.

Eccessiva omologazione

Cosa significa? Significa che il politicamente corretto non fa bene alla letteratura. E mi si passi il paradosso: proprio il Bene non fa bene alla letteratura. O meglio: l’anteporre questioni che di letterario hanno poco alla qualità narrativa, all’immaginazione di un autore, alla stesura di un romanzo, è negativo. Anzi, se un tempo la provocazione, l’originalità, l’essere controcorrente era condizione essenziale per il bene delle lettere, oggi è un qualcosa guardato con sospetto. Se un tempo la sperimentazione linguistica, l’ambiguità, il modo irrisolto di trattare i problemi e i temi, era certamente un valore, oggi non lo è. Walter Siti elenca, in modo spietato, i temi più alla moda, quelli che devono entrare a far parte dell’immaginario letterario: «migranti, vari tipi di diversità, malattie rare, orgoglio femminile, olocausto, bambini in guerra, insegnanti eroici, giornalisti o avvocati in lotta col Potere, criminalità organizzata, minoranze etniche». Sono soltanto poche righe, ma spiegano tanto. A queste poche righe fa riferimento il 99 % dei nuovi romanzi che si scrivono, dei critici che recensiscono, degli aspiranti scrittori che vorranno mettersi al lavoro su un testo di esordio, o qualcosa del genere. Sono temi che spesso passano anche nel cinema, ma se il cinema è intrattenimento, è spettacolo – ed è indubbio che la lotta contro il potere, o i bambini in guerra o la criminalità organizzata, hanno un aspetto visivo e drammatico, tale da attrarre gli spettatori – per la letteratura c’è qualcosa di diverso, qualcosa che Siti sfiora nel suo saggio, ma che andrebbe approfondita. La differenza è tutta nei due mezzi, assai diversi.

Le pagine e lo schermo

In questi anni si è creduto, e si continua a credere fermamente, che il cinema e la letteratura siano un po’ la stessa cosa. Il cinema racconta storie con attori, location, immagini, fotografia. Storie che si fanno spettacolo. La letteratura racconta storie sulla carta. Storie che non vediamo quando le leggiamo, ma che possiamo immaginare come fosse un film tutto nostro, un film della nostra mente. Ma le storie quelle sono. Una storia che va sullo schermo e una storia che va sulle pagine di un libro, sono apparentate, anzi di più: sono due facce della stessa medaglia. È questo che credono in molti. Che differenza c’è tra cinema e letteratura? Che il cinema mostra le cose, e lo fa in circa due ore, la letteratura racconta senza limiti di tempo e le immagini bisogna trovarsele da soli. E siccome entrambi i mezzi raccontano cose che devono «intrattenere», i temi indicati da Walter Siti, neanche a dirlo, sono quelli che attraggono di più. Solo che per distinguere la letteratura dall’intrattenimento dobbiamo elevare la letteratura, darle un senso, una missione, uno scopo. Per cui la letteratura, contrariamente al cinema, che ancora ha la facoltà di fare cattivo maestro, deve indicare una via, educare, prospettare un mondo migliore, denunciare corruzione, soprusi e ingiustizia, rendere i lettori consapevoli. Contribuire alla crescita morale della società. Da alcuni anni è così. E buona parte dei libri che si pubblicano sono questo. Testi che in una maniera o nell’altra debbono salvare il mondo. Ma la letteratura non ha mai salvato niente, non è mai stata di esempio. Spesso gli scrittori erano canaglie che non avevano alcuna voglia di educare. Personaggi alle volte spregevoli che avevano in testa solo una cosa: smontare il punto di vista comune, mettere il mondo in disordine, porre al lettore mille dubbi, capovolgere persino il cielo quando era necessario. E tutto questo andava fatto attraverso il linguaggio, la ricerca sulla parola. Restando ben lontani dal cinema, che era tutta un’altra storia, e che poco a che fare doveva avere con la letteratura. Oggi il Bene in letteratura rischia di essere il male. E non solo per la qualità dei libri che si pubblicano, ma anche perché non c’è più immaginazione, solo stereotipi, politicamente corretti, di cui nessuno ha davvero bisogno.