Grande schermo

Il cinema per Spielberg, filtro magico della realtà

Il 76.enne regista parte dalla propria autobiografia giovanile per regalarci il magistrale ritratto di una famiglia americana tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in un mondo dove le immagini in movimento rappresentano il mezzo ideale per capire dove stiamo andando
Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle) alle prese con la sua grande passione: il cinema. © Universal Pictures
Antonio Mariotti
24.12.2022 06:00

«Quando l’orizzonte è in basso è interessante. Quando l’orizzonte è in alto è interessante. Quando è a metà è una noia pazzesca». Questa la concisa ma pregnante lezione di cinema che uno scarmigliato e burbero John Ford (interpretato niente di meno che da David Lynch) impartisce al sedicenne Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle) che fin da bambino coltiva il sogno di lavorare nel cinema. È la magnifica scena finale di The Fabelmans, il nuovo lungometraggio diretto da Steven Spielberg (anche cosceneggiatore insieme a Tony Kushner) che s’ispira alle vicende autobiografiche del grande cineasta tra infanzia e adolescenza. Pretenzioso Spielberg? Vittima di un eccesso di nostalgia, per la giovinezza perduta, ora che è arrivato all’età di 76 anni (compiuti domenica scorsa)? Potrebbe sembrare così ma non lo è, perché Spielberg ci racconta sì la sua storia personale ma, tra le righe, ci offre il magistrale ritratto di una famiglia ebrea americana della classe media tra gli anni Cinquanta e Sessanta, tra reminiscenze della Secondo conflitto mondiale e i brividi della Guerra fredda, tra tradizione e bruschi mutamenti sociali. Ciliegina su una torta già succulenta, l’amore per il cinema, esperienza fortemente emotiva che per il piccolo Sammy è prima di tutto un trauma. Convinto dai genitori a vedere insieme a loro Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. De Mille (1952) il bambino è particolarmente colpito dalla celebre scena del disastro ferroviario che cerca poi di replicare a casa con il suo trenino elettrico. Sarà la madre Mitzi (Michelle Willians, bravissima) a suggerirgli di filmare la scena con la cinepresa 8 mm del padre per rivederla a piacimento senza fare troppi danni. Da quel momento, per Sammy il cinema diventa il filtro magico attraverso cui vedere la realtà, cercando di capirla prendendone le distanze. Il centro della sua vita e il modo per trovare il proprio posto in seno alla società. Anche se a volte saranno proprio le sue riprese a fargli scoprire l’impensabile. Come nel caso del flirt di Mitzi con Bennie, il miglior amico del marito, che la porterà poi al divorzio e ad abbandonare la famiglia.

Tra arte e razionalità

Le dinamiche all’interno del nucleo familiare sono l’altro caposaldo del film. La figura di Mitzi, pianista classica votata a una carriera da concertista che ha abbandonato dopo il matrimonio, rappresenta il versante artistico, ricco di entusiasmo ma anche di fragilità psicologica. Il padre Burt (un convincente Paul Dano) incarna invece il razionalismo assoluto dell’ingegnere elettronico impegnato a sviluppare i primi prototipi di computer. Il piccolo Sammy si trova così tra l’incudine e il martello, tra una madre che lo incita a realizzare il sogno artistico a cui lei ha dovuto rinunciare e un padre che considera la sua passione per il cinema come un semplice hobby che non potrà mai diventare una professione. Il ragazzo, come fece il giovane Spielberg a partire dai 12 anni, inizia quindi a girare filmini con gli amici, cimentandosi nei generi più in voga allora come il western e il film bellico. E alla fine è proprio questa la parte più strettamente autobiografica di The Fabelmans, poiché il regista ha ricostruito sequenza per sequenza i suoi cortometraggi dell’epoca, spingendo però il direttore della fotografia Janus Kaminski a migliorare le inquadrature meno riuscite. Caso mai ce ne fosse qualcuna con l’orizzonte lì a metà.

Cineasti affermati che parlano di sé

Se di solito sono i registi al debutto a prendere spunto dalla propria autobiografia, negli ultimi tempi sono stati diversi i cineasti affermati che, al pari di Steven Spielberg, sono partiti dai propri ricordi infantili o adolescenziali per confezionare opere di rilievo. Limitandoci agli ultimi 12 mesi, è stato il caso di Kenneth Branagh con il suo Belfast, di Paolo Sorrentino con È stata la mano di Dio, di Paul Thomas Anderson con Licorice Pizza e di James Gray con Armageddon Time. Senza scordare, spostandoci all’indietro di un paio d’anni, Roma di Alfonso Cuaron e Once Upon A Time in Hollywood di Quentin Tarantino. L’immediato futuro ci dirà se si tratta di una pura coincidenza o di una vera e propria tendenza.