Locarno film festival

«Il cinema sta ripartendo ma molte cose muteranno»

La direttrice artistica Lili Hinstin illustra le scelte della 73. edizione ibrida, al via mercoledì sera
Lili Hinstin è alla guida del Locarno Film Festival dal 2019. © CDT / CHIARA ZOCCHETTI
Antonio Mariotti
04.08.2020 06:00

Dopo una prima edizione coronata da un buon successo, Lili Hinstin non si sarebbe mai aspettata di dover sconvolgere la formula del Locarno Film Festival 2020. Con lo slogan «For the Future of Films», la direttrice artistica ha però reagito alla situazione in modo intelligente e creativo. L’abbiamo incontrata alla vigilia dell’inaugurazione di mercoledì sera.

Il cinema, in tutte le sue componenti, è entrato in una crisi gravissima con la pandemia di coronavirus. Dopo lo choc iniziale, quali sono i segnali che raccoglie oggi dagli addetti ai lavori?

«Percepisco uno spirito molto vivo, molto attivo. Moltissimi registi sono tornati a lavorare, dopo aver usato il periodo del lockdown per scrivere, o riscrivere, le proprie sceneggiature. Sono casi che fanno parte della storia del cinema: dimostrano come gli ostacoli possano giovare al risultato finale in ambito artistico. Dal punto di vista della produzione, ho sentito di tanti set che stanno per ripartire, di cineasti che hanno deciso di girare un po’ all’improvviso. C’è grande voglia di fare insomma. D’altro canto mi sono giunti echi molto negativi, molto preoccupati e cupi da parte dei distributori e degli esercenti, che temono per la sopravvivenza della propria attività. È un fatto inquietante, perché se la loro situazione non cambierà le conseguenze saranno drammatiche».

Il fatto che tutti abbiamo passato tre mesi e più a vedere film in streaming, potrebbe far sì che il pubblico non strettamente cinefilo continui a restarsene a casa e a disertare le sale?

«Penso proprio di sì, non si tratta però di un pericolo direttamente legato al confinamento, ma di una problematica di primaria importanza che si poneva già prima agli esercenti e ai distributori. La crisi sanitaria e il confinamento hanno solo accelerato le cose. Vedo diversi punti negativi in questo fenomeno: prima di tutto il modo di fruizione delle opere, su schermi piccoli e con un sonoro insufficiente. È una cosa che mi fa pena, sia per i registi sia per gli spettatori. Sulle grandi piattaforme, inoltre, l’offerta è francamente scarsa. Per ciò che riguarda le sale, è in atto una mutazione e quindi dovranno adattarsi a una situazione che è ancora in piena evoluzione. Ci sono idee interessanti, ma credo che ad esplodere sarà la “cronologia dei media”, cioè gli intervalli temporali che finora esistevano tra il passaggio di un film nelle sale, sulle piattaforme VoD, in televisione, ecc.. Vedo un nuovo modo di distribuzione che sia più o meno in contemporanea tra la sala e i canali digitali. E ciò pur rivolgendosi allo stesso tipo di pubblico: se un giorno sono pigra me ne sto a casa e mi vedo il film online, mentre il giorno dopo hoo voglia di andare al cinema e ci vado. Esistono già sperimentazioni in questo senso e penso che tutti dovranno adattarsi».

E i festival invece?

«I festival non sono in pericolo, perché a mio modo di vedere sono degli eventi paragonabili ai concerti e i concerti non hanno sofferto dell’apparizione delle piattaforme musicali, anzi hanno preso maggiore importanza. Locarno, con i suoi schermi eccezionali, giganteschi, con la presenza di star, non corre pericoli ma deve partecipare a una riflessione innovativa con produttori, distributori ed esercenti e dimostrare solidarietà nei confronti delle difficoltà che questi possono incontrare in un momento di radicale trasformazione».

L’edizione 2020 di Locarno, che si può definire «di transizione», può essere importante anche proprio in vista del futuro?

«Per ciò che riguarda il Festival vero e proprio, non so quale formula adotteremo in futuro. Certo l’idea di toccare un pubblico che sta dall’altra parte del mondo è molto allettante. Lo abbiamo visto con le “Shorts Weeks” dello scorso febbraio, quando il Paese con il maggior numero di visionamenti è stato il Bangladesh. È il sintomo di una sete di cinema di qualità che esiste in queste realtà, ma il dispositivo che abbiamo messo in piedi quest’anno non è ripetibile l’anno prossimo».

Cannes ha presentato la sua selezione «virtuale», Venezia invece proporrà un programma ridotto ma «tradizionale»: cosa pensa delle scelte così differenti dei grandi festival?

«Ognuno ha cercato di attuare un sostegno ai film nel proprio contesto. Il label di Cannes è stato molto criticato ma di certo è stato concordato con distributori e venditori che hanno ritenuto che potesse aiutare queste opere ad incontrare il pubblico. La decisione di Venezia penso invece che nasca da una volontà politica ai massimi livelli. Senza emettere alcun giudizio, penso che ogni governo abbia priorità diverse: il Consiglio federale ha dato la priorità alla salute, il governo italiano invece allo svolgimento di un grande evento culturale nazionale, forse anche per un desiderio di tornare alla normalità dopo quel che è successo».

Lei aveva offerto ospitalità al Festival di Cannes prima di dover rinunciare a sua volta allo svolgimento normale di Locarno 2020: sarebbe stata una bella occasione?

«Certamente avremmo potuto presentare alcuni dei film selezionati da Cannes in Piazza Grande, ma purtroppo le cose sono andate diversamente».

Alla vigilia della nuova edizione di un festival, la direzione artistica è concentratissima su ciò che accadrà nei successivi dieci giorni. In quest’anno particolare lei sta invece già pensando anche a ciò che farà nel 2021?

«Assolutamente no. Non posso farlo prima che sia terminata questa edizione, devo prima sperimentare le particolarità del 2020 che, come tutte le edizioni precedenti, nutrirà quella successiva, perché ogni volta solo alla fine si fa un bilancio di quel che è andato bene e di quello che invece è da cambiare. Quest’anno sperimentiamo molte novità e quindi anche il 2020 porterà sicuramente degli insegnamenti utili per il futuro».

Che consiglio si sentirebbe di dare ai giovani cineasti dei Pardi di Domani o di Open Doors che si affacciano su un mondo, quello del cinema, che rischia di cambiare drasticamente nel futuro immediato?

«Molto semplicemente, direi loro che l’arte non è mai stata fermata dalle peggiori crisi o dalle tragedie storiche. E quindi qualunque cosa succeda l’arte si nutre del proprio tempo e anche questo tempo stranissimo creerà qualcosa e porterà i suoi frutti».

Ad esempio i film della «Collection Lockdown» che sivedranno nella serata finale del Festival?

«Sì, è una scelta nata proprio dal desiderio di chiudere il Festival con una testimonianza di quello che è successo nei mesi scorsi e di come questi registi hanno lavorato ed esercitato la propria arte nell’ambito di questa situazione. D’altro lato ci sembrava importante terminare il festival con un senso di comunità ed è per questo che abbiamo scelto tutti i film ticinesi di questa collezione più uno svizzero tedesco e uno romando e sette registi su nove saranno presenti».

Tra le novità del 2020 c’è la serie di proiezioni Secret Screenings: com’è nata?

«È un’idea che mi piace moltissimo, pensata insieme ai miei collaboratori. C’è stato pochissimo tempo per realizzarla, da quando abbiamo deciso di organizzare delle proiezioni nelle sale di Locarno, ma grazie al team del Festival ciò è stato possibile. Dopo aver deciso di programmare in sala i Pardi di Domani, la retrospettiva di Open Doors e i film della storia del Festival, volevamo offrire ancora qualcosa di speciale alle persone che saranno a Locarno anche quest’anno. Allora è riemersa l’idea dei Secret Screenings di cui si era già parlato in passato senza trovare come metterla in atto: nove proiezioni che mischiano film del passato e film nuovi. Non è il mio “best of” della storia del cinema, è una sorta di racconto a episodi legata a questo momento particolare, con film che mi hanno sorpresa, che avevo voglia di condividere in maniera non troppo seria, come si fa tra amici. Alla fine i Secret Screenings rappresentano l’essenza profonda di Locarno: la scoperta. Parteciparvi sarà quasi come vedere l’opera prima in concorso di un regista coreano di cui non si sa nulla».

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