Il colibrì? «È una storia estrema nella quale ritrovarci»

Pronostico rispettato. Sandro Veronesi con Il colibrì (ed. La Nave di Teseo) ha vinto il 74. Premio Strega con 200 voti. Al secondo posto con soli 132 voti il maggiore antagonista, Gianrico Carofiglio con La misura del tempo (Einaudi). Un secondo successo (il primo fu nel 2006 con Caos calmo) che lo fa entrare negli annali del maggiore premio letterario italiano. In precedenza solo Paolo Volponi si è infatti imposto due volte nello «Strega», nel 1965 con La macchina mondiale (Garzanti) e nel 1991 con La strada per Roma (Einaudi). Lo abbiamo incontrato.
Il colibrì racconta la storia di un uomo, Marco Carrera, e dei suoi affanni per mantenere immobile la sua vita. Proprio come quell’uccellino tropicale che riesce a stare immobile in volo grazie alla più frenetica attività delle ali, punta a eludere ogni cambiamento attraverso tutto ciò che fa. Un atteggiamento inteso come una strategia o una sconfitta?
«Né l’una né l’altra direi. Se si chiede al colibrì perché si comporta in quel modo non lo sa: è la sua natura. Nello specifico poi, non è tanto l’immobilismo perché il colibrì si muove tanto ma per stare fermo, per cui la sua è una specie di affezione profonda a ciò che si ha, a ciò che è, a ciò che ha valore nel qui e nell’ora cercando di preservarlo il più possibile anche nel futuro. Però è un’attitudine in contrasto con il mito del cambiamento soprattutto nei tempi nostri, ed esercita un fascino al quale io non sono immune».

In che senso?
«Io sono diverso dal protagonista del libro: sono attratto dal cambiamento anche se non c’è nessuna buona ragione per cambiare una certa situazione. È il cambiamento in sé che esercita attrazione, per me e per altre persone. Ma c’è chi, come il protagonista del libro, predilige ciò che è da ciò che potrebbe essere: lo preferisce e soprattutto ne ha cura. Usando un’immagine popolare dico che Marco Carrera è quello che chiude la stalla quando i buoi sono scappati, ma si prende cura della stalla perché i buoi potrebbero sempre tornare».
Il romanzo è uno scandaglio nel profondo delle difficoltà dell’amore matrimoniale?
«Sì: dò conto che c’è un profondo in cui vengono celate le cose perché è molto difficile che ci siano esperienze matrimoniali intense e in armonia. Il profondo, di solito, è il luogo dove le due persone che stanno assieme nascondono e stipano tutto ciò che le separerebbe e si accontentano di un’unione non profondissima, ma depurata di tutti quegli elementi che potrebbero sbilanciarla. Io non effettuo scandagli nel romanzo, ma dò conto che ogni tanto si aprono dei crepacci e da quel profondo vengono fuori tutte insieme in maniera abbastanza aggressiva e violenta le ragioni che avrebbero sconsigliato questa unione. A volte questo non accade; a volte ha successo la rimozione o il nascondimento, ma ciò non significa che tutte le unioni sono fasulle».
L’ambiguità dei rapporti è una maschera sociale tanto cara ad un certo tipo di borghesia?
«Se fosse solo questo sarebbe un discorso che implica poche responsabilità personali e quindi dal punto di vista romanzesco meno interessante. Invece questo fenomeno lo è perché a volte anche contrastando la convenienza sociale e la tendenza alla maschera sociale, certe situazioni sono specifiche dell’essere umano che non riesce a controllare, che lo governano e che poi nella vita sociale l’individuo cerca di nascondere: però sono strutturali».
E così entriamo nell’ambito psicoanalitico del romanzo...
«Certo, e non è un caso che sebbene abbia scelto un protagonista che non se ne fida né vi si affida, la psicanalisi sia uno strumento molto sollecitato in questo romanzo perché forse è l’unico che riesce a farsene qualcosa delle cose rimosse e nascoste: ogni altra disciplina è meglio che le eviti perché rischia di rovinare tutto. La psicanalisi invece può operare anche nel disastro: più è catastrofica la situazione e più la psicanalisi diventa fondamentale. Quando si parla di queste incrostazioni, credo più a una questione di destino individuale che spinge uno scrittore a creare dei personaggi, andarci appresso per degli anni, piuttosto che a una dipendenza sociale o di costume, per denunciare la quale basterebbe un saggio o una serie di articoli».


Che cos’è l’amore vissuto dai suoi personaggi?
«Uno psicanalista direbbe che l’amore è una patologia grave che distorce e altera il comportamento, la lucidità, il libero arbitrio e il giudizio delle persone. Allo psicanalista non importa che si tratti di vero amore o di passione, perché per lui è sempre una patologia grave, proprio perché anche nel più puro degli amori si cela una minaccia enorme: lo spossessamento, il che significa non essere più padroni delle proprie decisioni, molte delle quali assunte in quanto frutto dell’amore che ci possiede».
È così per tutti gli amori, per tutti i rapporti di coppia?
«Credo che anche negli amori fortunati, felici, non ci sia meno pericolo di perdersi. Magari c’è meno pericolo d’essere infelici, ma se uno non è infelice e non fa nulla di male, che sia per una sindrome o per una patologia, o per una eccessiva purezza – non fa differenza – i suoi controlli ad un certo punto della vita cadono perché tutto dipende da un’altra persona che si ama profondamente. Questa è una particolarità abbastanza curiosa per uno psichiatra: è un abdicare dalle proprie facoltà attaccando tutto a un solo gancio, e se viene giù quello viene giù tutto. Questo è l’amore vero, e non so cosa ci sia di peggio al mondo di questo sentimento dichiarato. Ma anche gli amori veri spesso crollano tragicamente».
Il comportamento di Marco non ha nulla di glorioso o di eroico, ma la sua disperata opposizione al crollo ne fa uno dei pochi testimoni di un passato più decoroso e concreto?
«Lei ha capito quello che io speravo venisse colto: l’eroismo di Marco Carrera che per resistere ci mette del suo, ma le cose belle e brutte che lo investono lui non le controlla, non è causa di quanto gli avviene. Quella è la sua particolarità e il suo eroismo: restare là, rimanere in piedi, non mollare, non voltare le spalle a una storia che gli ha dato anche tanti dispiaceri. Tante persone si potrebbero perdere di fronte ad un prezzo così alto, ma Marco Carrera no. Quello che gli capita fa di lui un nonno speciale. L’attitudine che ha nei confronti della nipotina è una conseguenza di quello che succede sia prima sia dopo la morte di sua figlia. Il percorso che lo porta ad affiancare questa creatura, è particolare, speciale, ed è anche una delle ragioni per cui ho scritto questo romanzo: non volevo raccontare una storia banale ma una storia estrema perché all’interno di quei confini ci siamo tutti noi con un grado di specificità magari inferiore. E chiunque di noi farebbe come Marco Carrera se si trovasse in quelle condizioni».