Sanremo 2022

Il Festival dei nostri cuori

Prima di tuffarci nella maratona sanremese abbiamo fatto un «giro» nella redazione del Corriere del Ticino – Alle colleghe e ai colleghi abbiamo fatto una domanda: qual è la tua canzone preferita di tutti i tempi?
© EPA/RICCARDO ANTIMIANI
Red. Online
01.02.2022 12:40

Sanremo. Il mare, i fiori, il Festival. Già, il Festival. Finalmente ci siamo. Oggi è il grande giorno. Amadeus, Fiorello, artisti in gara: tocca a voi. Nell’attesa della prima serata, al Corriere del Ticino abbiamo fatto un altro tuffo nel passato. Per dirla con Loredana Bertè, e pazienza se ci affidiamo a una canzone non sanremese, «io mi vestivo di ricordi per affrontare il presente». E che ricordi. Alle giornalisti e ai giornalisti del Corrierone abbiamo fatto una semplice domanda: qual è la tua canzone preferita di tutti i tempi? Quella, per intenderci, che ti ha colpito maggiormente. E che, a distanza di anni, ancora ti fa vibrare. Ecco le risposte.

Mauro Rossi
Tiziana Rivale –
Sarà quel che sarà (1983)
È stata una delle tante «meteore» che ha solcato il cielo sanremese. Giunta da sconosciuta all’edizione 1983, la vinse prima di ripiombare nell’anonimato. Perché ho un ricordo particolare? Perché all’epoca ero un giovane deejay di una radio campionese, al quale un addetto di una casa discografica che la sapeva lunga propose, il giorno prima della finale, un’intervista con la suddetta. Detto fatto: presi la mia 127 Diesel e da Campione mi fiondai per la prima volta nella mia vita nella «bolgia» sanremese – che tanto bolgia, a dire il vero, allora non era – per fare questa intervista. Intervista che il giorno dopo, quando a sorpresa la Rivale vinse, ci permise di fare un autentico scoop.

PS Durante quella prima veloce trasferta sanremese, in un ristorante sul lungomare, incrociai un tale che avevo conosciuto e frequentato un paio d’anni prima alle Stelle di Ascona. Sorpreso di vedermi lì («Ma cosa ci fai tu da queste parti? Qui di rock c’è n’è poco» fu il suo primo commento), a una mia analoga domanda sul perché fosse al festival mi disse «cioè, capito, perché qui è un gran casino, però deee qui facciamo baracca (festa in slang emiliano, ndr)». Indovinate di chi sto parlando?

Paolo Galli
Pierdavide Carone e Lucio Dalla –
Nanì (2012)
Sanremo 2012. Poteva essere un Sanremo tra i tanti.

Morandi a sbracciarsi sul palco. Mani che si agitano, gag che non funzionano. La favorita è Emma, e Emma vincerà. Ma in concorso c’è anche Lucio Dalla. E se in giro c’è Dalla, tutto ruota attorno a Dalla. Per forza di cose. Il mondo con lui si trasforma, si fa teatro dell’assurdo, come una fantasia che diventa realtà, come in una delle parentesi animate di Mary Poppins. A metterci la faccia è però Pierdavide Carone, un ragazzo, ennesimo allievo di un maestro generoso come nessun altro. Dalla dirige l’orchestra. Siamo a metà febbraio. Nanì è una prostituta. È una di quelle canzoni di Dalla che raccontano il mondo sotterraneo, quell’umanità e quei sentimenti altrimenti destinati a non emergere mai. È colma di disperazione. Un amore che amore mai sarà, se non a tempo, in un bosco che ormai ha il suo stesso odore. L’odore di Nanì. «Siamo dentro a un mondo senza eroi».

Lucio Dalla morirà il 1. marzo, a Montreux. Pochi giorni dopo avrebbe dovuto essere a Lugano, in concerto. Provo a non pensare a quel giorno, provo a rimanere a quel Sanremo, a quel modo stralunato e unico che aveva, Dalla, di stare tra gli altri, davanti agli altri, dietro a tutti, e di osservare il mondo. Citando un’altra sua canzone – Cara –, «la notte sta morendo, ed è cretino cercare di fermare le lacrime ridendo».

Alan Del Don
Enrico Ruggeri –
Mistero (1993)
Lo dico da milanista, ma stavolta non mi piange il cuore: per me la canzone per antonomasia di Sanremo è Mistero dell’interista Enrico Ruggeri. Anno 1993. Mancavano pochi mesi ai miei 13 anni. Quell’età un po’ ribelle, dove credi di essere grande ma ancora non lo sei, tuttavia «batte forte il cuore anche per lo stupore di non capire l’orizzonte che colore ha». Inevitabile scegliere la musica rock. Che a quei tempi faceva davvero «figo». E lui, che già ti aveva meravigliato con Morandi e Tozzi sei anni prima con la melodica Si può dare di più, ti colpisce nuovamente. Rivince il festival con una canzone che non rispecchiava affatto i canoni e i dettami della rassegna. Un motivo in più per apprezzarla, ti dici. Vero. Verissimo. Il rock sul palco è il segnale di un mondo che sta cambiando, preludio ad un anno che il «New York Magazine»definì in seguito formidabile: il boom di Internet, il Nobel a Mandela, l’ultimo album dei Nirvana, Tarantino gira Pulp Fiction, il 1. maggio la Svizzera sconfigge l’Italia nelle qualificazioni per i Mondiali staccando metà biglietto per l’appuntamento iridato a stelle e strisce. «Quando si ama davvero, mistero».

Stefano Olivari
Fiordaliso –
Non voglio mica la luna (1984)
Nel febbraio del 1984 sono un ex aspirante tennista, che non tocca una racchetta da sei mesi dopo un decennio di spese, speranze, sacrifici familiari, battaglie contro altri illusi e pianti. Non c’è alcun retroscena: è che ci sono decine di sedicenni più bravi di me, anche restringendo il discorso alla sola Lombardia. Ho sempre seguito Sanremo, ma questa è la prima volta in cui lo faccio da fallito: almeno è così che mi sento, mentre Pippo Baudo torna a presentare il Festival per la prima volta dal 1968. Non sono nello spirito per guardarlo, fra l’altro a scuola vado da cani e questa è l’unica caratteristica del campione che ho. Però accade che ci siano canzoni che ti parlano, che ti entrano dentro al primo ascolto: quando Fiordaliso inizia con «Vorrei due ali d’aliante – per volare sempre più distante» decido che Non voglio mica la luna è la mia canzone e lo sarà per sempre. Il bello è che il testo c’entra assolutamente zero con l’adolescenza e con i sogni infranti, ma proprio per questo diventa la mia canzone all’istante: solo io sono in grado di decifrarne i significati arcani. Compilo decine di schedine del Totip per votare Fiordaliso, faccio un tifo scatenato e la terza serata, all’epoca sono tre, mi piazzo davanti al televisore con lo spirito con cui seguirei una finale del Mondiale. È un meraviglioso festival italiano, con Al Bano e Romina (Ci sarà, che poi vincerà, mentre nelle Nuove proposte emergerà Eros Ramazzotti), Toto Cutugno, Christian, Pupo, Anna Oxa, Patty Pravo, Enrico Ruggeri. Fiordaliso arriverà quinta, grazie a noi popolo del Totip. E Non voglio mica la luna mi farà rinascere, insieme allo spirito degli anni Ottanta.

Michele Montanari
Elio e le Storie Tese –
La terra dei cachi (1996)
Il mio brano sanremese del cuore è La terra dei cachi degli Elio e le Storie Tese. Quando la band presentò il brano all’Ariston, nel 1996, avevo solamente 11 anni e, pur non capendo veramente un testo così arguto e pungente, rimasi affascinato da quegli strani musicisti, decisamente fuori luogo nell’ambiente pettinato del Festival. Amai fin da subito la musica, i giochi di parole, le onomatopee e quell’«Italia sì, Italia no» mi rimase in testa per mesi. Lo stesso anno chiesi ad un amico di copiarmi su musicassetta l’album Eat the Phikis, che conteneva appunto il brano sanremese. Era la prima volta che sentivo così tante parolacce e scorrettezze, ne rimasi affascinato, anche se il disco non era propriamente destinato a un bambino. Anni dopo capii veramente il testo de La terra dei cachi: una geniale critica all’Italia, senza moralismi. Una divertita presa in giro del Belpaese, con tutti i suoi difetti, i suoi paradossi e le sue passioni. Nel bene e nel male.

Sara Mauri
Laura Pausini –
La solitudine (1993)
La Solitudine andava fortissimo tra noi bambini, facevamo a gara a chi la cantava meglio. Non capivo e credo che nemmeno gli altri capissero la storia del cuore di metallo senza l’anima, ma del resto cantavamo di Marco senza sapere chi fosse e cantavamo l’amore senza sapere di cosa si trattasse. Poi, ho ascoltato talmente tanto questa cassetta che questa passione si è piano piano placata, fino a che poi si è spenta. Ma resta il fatto che la cassetta della Pausini è stata la prima che ho desiderato e bramato. Ho voluto così tanto solo quella con Lemon Tree dei Fool’s Garden.

Anni ‘90. Il Festival di Sanremo era qualcosa che si doveva vedere. Alternavamo i giochi in cortile ai suoni delle finestre da dove arrivava la musica. A scuola, all’intervallo, si cantava. Papà aveva dei dischi, li mettevo di nascosto, quando tutti erano fuori. Lui aveva quelli che cantavano in americano, in inglese. Jon Bon Jovi, Bryan Adams, Joe Cocker, Tanita Tikaram, Phil Collins (ah, i Genesis). Io mi inventavo le parole in un inglese selvatico e mettevo spesso il disco Rondò Veneziano. Ma da piccoli guardavamo Sanremo come si guarda qualcosa dove quello che ti piace non vince mai. Pippo Baudo con il farfallino, elegante e serioso, bussava ogni anno dalle nostre tv. Ma perché non premiano mai le canzoni belle?, mi chiedevo. Avevo e ho ancora un’insolita passione per gli sconfitti. Poi, è arrivata lei. Avevo 9 anni e finalmente vinceva qualcuno che mi piaceva. Pausini, 1993, aveva vinto Sanremo nella sezione «Novità» ed è subito entrata con entrambi i piedi nella gran colonna sonora dei miei 9 anni. Se penso a Sanremo penso ancora alla Pausini: «Marco se n’è andato e non ritorna piùuuu, il treno delle 7 e trenta senza luuuuii...».

Massimo Solari
Loretta Goggi –
Maledetta primavera (1981)
«Ma come? Tu nel 1981 non eri manco nato!». D’accordo, e allora? In fondo la potenza di Sanremo è proprio questa. Attraversare epoche e, di riflesso, generazioni. Distribuendo con generosità colpi di fulmine ed emozioni senza tempo. Al sottoscritto, nella fattispecie, è successo con Maledetta primavera. «Se per innamorarmi ancoraaaaa...». Per l’appunto. Grazie Loretta Goggi e, soprattutto, grazie ad Amerigo Cassella (testo) e Gaetano Savio (musica e a questo punto nomen omen), ideatori del brano che chiuse in seconda posizione. Più che in qualità di canzone d’amore, il pezzo, che dico... il pezzone ha però abbracciato il sottoscritto e le sue amicizie più care. Una botta di vita pazzesca. Che, a scadenze regolari e senza alcun voto all’intonazione, si alza in coro. «Voglia di stringersi e poi...».

Dario Campione
Rino Gaetano –
Gianna (1978)
Palermo, 1971. Un grande televisore con le manopole gialle e uno scheletro di plastica verdolina. Un magnetofono a bobine poggiato sul mobile del salotto, il microfono accostato allo schermo. La consegna del silenzio. Totale. Assoluto. Per non sporcare la registrazione.

Il primo Sanremo è un ricordo in bianco e nero. Dentro il quale risuonano le note di Che sarà, dei Ricchi e Poveri, e di 4 marzo 1943 di Lucio Dalla. Un ricordo sicuramente alimentato nel tempo da immagini riemerse successivamente qua e là, e quindi forse non del tutto autentico.

Sicuramente più sincera e concreta è invece la memoria di Rino Gaetano e della sua Gianna, cantata indossando un curioso cilindro e un irriverente (per me allora) frac scompagnato. Ma se Sanremo ha significato qualcosa, nell’età adolescenziale, sicuramente il merito va dato a Roberto Benigni e a quel «Wojtylaccio» che nel 1980 scandalizzò più d’una beghina ma fece respirare una boccata d’aria fresca a un Paese incupito e preda ancora di troppe angosce e paure. Lo capì anche il giudice che assolse il comico toscano dall’accusa di vilipendio. Oggi pur di averlo sul palco dell’Ariston (Benigni, non il giudice) farebbero carte false.

Giorgia Cimma Sommaruga
Mia Martini – Gli uomini non cambiano (1992)

Sanremo 1992, per la sua penultima partecipazione al Festival della canzone italiana Mia Martini sceglie di presentarsi con un brano che sarebbe diventato un punto cardine, confermandola una delle interpreti più rilevanti di sempre nel panorama musicale nazionale. Mia si classificò seconda, e si garantì la partecipazione all’Eurofestival ’92. Una interpretazione carica di pathos, la voce graffiante, le parole che ci rendono tutte partecipi del dolore interpretato dalla cantante. Perché è il mio testo preferito? Beh, è semplice, lo trovo attualissimo, un evergreen della musica italiana, è come un tubino nero di Armani, non passa mai di moda. Soprattutto alla luce dei fatti di violenza di genere che ogni giorno leggo, e che mi indignano. Trovo che il finale possa essere un manifesto moderno: «Ma perché gli uomini che nascono/ Sono figli delle donne / Ma non sono come noi». Perché uomini e donne, benché debbano avere pari diritti, e sottolineo l’imperativo, non sono uguali: siamo stupende costellazioni – differenti – nello stesso cielo.

Federica Serrao
Pinguini Tattici Nucleari –
Ringo Starr (2020)
Sono diverse le canzoni di Sanremo di cui conservo un ricordo speciale, ma il più recente risale a soli due anni fa. Era il 2020, inizio marzo, preludio della tragedia – che noi tutti conosciamo – che di lì a poco ci avrebbe colpito, cambiando drasticamente la nostra quotidianità e la vita come l’avevamo conosciuta fino a quel momento. Era sabato, quasi sera. Stavo preparando dei muffin con la mia migliore amica quando venimmo a conoscenza della chiusura dei confini con la vicina Lombardia. Incredule, lasciammo da parte ingredienti e stampini per un attimo, ma in sottofondo continuò la riproduzione di Ringo Starr dei Pinguini Tattici Nucleari, terza sul podio di Sanremo solo un mese prima. Nonostante la tragicità e l’angoscia che permeavano nella stanza dopo aver letto la notizia, la voce allegra di Riccardo Zanotti continuava imperterrita a cantare «questa sera ho solo voglia di cantare, di perdere la testa e non pensare più». Nel corso delle difficili settimane successive, Ringo Starr è paradossalmente rimasta la spensierata colonna sonora di un momento che aveva tutt’altro sapore, diventando però in questo modo anche un simbolo di speranza.

Irene Solari
Mia Martini –
Almeno tu nell’universo (1989)
Non ho un ricordo particolare legato a questa canzone – non avevo che qualche mese quando Mia Martini la portò sul palco di Sanremo – ma ne esistono molti, uno per ogni momento in cui l’ho sentita. E la mente poi corre sempre a Mimì sul palco, alla sua esibizione. Sempre. Lei, con la sua voce struggente e delicata, è armonia e disincanto, squarcia il cuore e riempie l’anima. Non stanca mai.

E mi fa anche un po’ strano che la canzone per me più significativa di Sanremo sia questa. Perché in fondo non ho gusti romantici, mai avuti. Non mi piacciono i libri o i film che parlano d’amore. E nemmeno le canzoni. Forse è perché Almeno tu nell’universo gioca proprio in un altro campionato. Non è ascrivibile a un genere. La sento semplicemente come infinita. Un universo di canzone e note come stelle che bruciano.

Jenny Covelli
Daniele Silvestri –
Salirò (2002)
Sanremo sa di casa. Di famiglia. Sanremo significava restare svegli fino a tardi, anche se il giorno dopo c’era scuola. Un’eccezione alla regola. Sanremo, a quei tempi, era un must. Tra le canzoni entrate di diritto nei ricordi c’è Salirò di Daniele Silvestri. Sanremo 2002. Una Jenny di 11 anni e mezzo che canticchia «pompa» insieme a mamma e fratello Mario. Un ritmo da ballare che, appunto, «pompa» e sembra quasi poco adatto alla serietà della kermesse e a quell’elegante teatro. Una canzone allegra, festosa, che nel testo racchiude parole anche non troppo felici («Più giù di così non si poteva andare, più in basso di così c’è solo da scavare») di un poeta in crisi che però ha ancora speranza. Nella serata finale Silvestri conferma il suo desiderio di fare festa e porta sul palco l’attore-ballerino Fabio Ferri, regalando un’esibizione a sorpresa che ricorda un’ironica febbre del sabato sera. Immobile per metà canzone, Ferri si attiva in un passo di danza solitario, imprevisto e bizzarro. I cinque minuti più belli dell’edizione 2002. E, nonostante il quattordicesimo posto a Sanremo (ma anche il premio della Critica), la canzone diventa un vero e proprio tormentone.

Un’ultima chicca. Peccato non aver visto (in diretta) Vasco a Sanremo. Era il 29 gennaio di 40 anni fa e lui mise il microfono in tasca, che cadde inevitabilmente con un tonfo rumoroso, dopo avere dichiarato a tutta Italia «Vado al massimo». Un palco «dissacrato con ironia e provocazione», per usare le sue parole. E al massimo, lui, ci è andato davvero. Promessa mantenuta.

Fernando Lavezzo
Renzo Arbore –
Il clarinetto (1986)
Sai qual era la fregatura negli anni Ottanta? Il Festival ti entrava dentro da piccolo. Mica con i grandi classici, no. Era subdolo. Aveva il lasciapassare per l’infanzia, strizzava l’occhio alle sigle dei cartoni animati, alla tv dei ragazzi. E intanto ti si appiccicava addosso per la vita intera.

Da bambino aspettavo i Righeira per i loro capelli buffi, Gigi Sabani con quella canzone surreale sull’arrivo di Gesù («Me lo aspettavo un po’ più biondo»), Marisa Laurito con Il babà è una cosa seria (e nemmeno sapevo cosa fosse un babà), Francesco Salvi con i versi degli «animali veri».

Mi piaceva Il clarinetto di Renzo Arbore, il «filù filù filù filà» del suo ritornello. A nove anni non ne coglievo i doppi sensi.

E intanto, sera dopo sera, in attesa di queste esibizioni super divertenti, mi si apriva un mondo nuovo: Anna Oxa, Eros Ramazzotti, Zucchero, Vasco Rossi, Matia Bazar, Stadio, Loredana Bertè, Mia Martini, Enrico Ruggeri, Luca Barbarossa. Ancora non sapevo che non me ne sarei liberato mai.

Mattia Sacchi
Subsonica –
Tutti i miei sbagli (2000)
Uno dei locali alternativi storici di Genova, un pivello tremendamente timido e impacciato finito lì per caso e che, per qualche ragione, trova la forza di dare il suo primo bacio a una ragazza, di cui ormai non ricorda più il nome. Quelle che sono però ancora impresse nella memoria sono le note della canzone che ha accompagnato quel momento: Tutti i miei sbagli dei Subsonica. Un episodio che quel ragazzo, ormai adulto ma non per questo meno impacciato, ebbe modo di raccontare qualche anno dopo al frontman Samuel, durante il suo primo giorno di lavoro in una discoteca. Samuel che si divertì e gli offrì da bere un paio di Negroni. Quel giorno di lavoro coincise anche con l’ultimo nella carriera da cameriere di quel giovane, che tuttavia non rinnegò «tutti i suoi sbagli»...

Marcello Pelizzari
Massimo Ranieri –
Perdere l’amore (1988)
Che faccio, l’alternativo? Vado controcorrente e cito l’ospitata clamorosa dei Blur, anno di grazia 1996, con tanto di cartonato di Graham Coxon? O ancora quella del 1999, con l’ipnotica Tender? No, meglio di no anche se, in realtà, l’ho appena fatto. Vero, verissimo: per dirla con l’amico Bugo, all’epoca «volevo fare il cantante delle canzoni inglesi». Ma le origini non si rinnegano, mai. Soprattutto quelle meridionali di mamma. Perché Sanremo è Sanremo, oh. L’avrò scritto, detto e ribadito mille volte. E quindi, beh, di fronte ai monumenti e ai mostri sacri non c’è Britpop che tenga. L’anima, insomma, canta in italiano. L’ha sempre fatto. Lo stesso dicasi per il cuore, che segue quello di mamma. Sempre lei. Se chiudo gli occhi torno al 1988, alle discussioni in famiglia, ai litigi attorno a Sanremo, alla forza dirompente di Massimo Ranieri, orgoglio di Napoli e del sud, un Diego Armando Maradona dell’acuto, al fatto che – stando a mia madre – il nostro eroe bevesse quaranta caffè al giorno. Perdere una donna e avere voglia di morire, cantava. Che fenomeno.

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