Teatro

«Il mio Don Giovanni è un bambino pericoloso, un criminale seriale»

Il regista Valerio Binasco racconta l’approccio alla pièce di Molière in scena al LAC il 12 e il 13 febbraio
Gianluca Gobbi e Sergio Romano in «Don Giovanni». (Foto Donato Aquaro)
Adriana Rossi
07.02.2019 15:51

Don Giovanni è - molto modernamente - un bullo, un nobilastro da strapazzo con un passato forse ricco e glorioso ma dal presente straccione, giubbotto di pelle e anfibi, coltello facile. Il servo Sganarello, complice e testimone necessario, un povero disgraziato. Vivono alla giornata e alla ventura, in fuga da padri, fratelli e donne che il Gran Libertino ha sedotte a raffica. Don Giovanni è Gianluca Gobbi, interprete ambivalente (nella sua carriera ruoli sia comici che drammatici), dal fisico sgraziato e sovrappeso: proprio quello che non attribuiresti a un seduttore. Sergio Romano è uno Sganarello logorroico, strisciante e servile, vile e venale. Sono loro i protagonisti che Valerio Binasco ha scelto per il suo Don Giovanni, che arriva al LAC il 12 e 13 febbraio. Produzione dello Stabile di Torino, Binasco - che ci introduce allo spettacolo - ha diretto e adattato il testo di Molière, dandogli un andamento veloce e un linguaggio contemporaneo, a tratti rozzo. Come rozzi sono i personaggi e il contesto: una specie di periferia povera e degradata, una nobile dimora buia e (de)cadente.

Sono infiniti i Don Giovanni che hanno attraversato letteratura, teatro e cinema. Cosa rende il personaggio creato da Tirso de Molina nel ’600 ancora attuale?

«È un archetipo che sta dentro le favole dell’umanità e racconta una parte di noi. Cattivo senza attenuanti, resiste agli attacchi dei detrattori. Anche quando ci fa orrore per il suo comportamento e le sue affermazioni, ci è quasi simpatico. E poi è un personaggio irrisolto, circondato da un’aura di mistero: quali le cause della sua patologia? Una risposta non c’è. Per questo mi sono concentrato non su chi è, ma su cosa fa. Ha una ferita, un dolore, delle cui cause non sappiamo nulla se non che lo ha reso ciò che è».

Valerio Binasco.
Valerio Binasco.

Dopo secoli di interpretazioni e interpolazioni (c’è anche chi gli ha dato un’identità femminile), come lo ha caratterizzato?

«Ho deciso di lasciar perdere la parodia del nobile spagnolo della prima tradizione, così come la figura vampiresca e tardoromantica, malinconica e cerebrale, prediletta nel secolo scorso. Il mio Don Giovanni è un bambino pericoloso, dedito in modo ossessivo a soddisfare gli impulsi del proprio piacere. Non un teorico del libertinaggio, ma un criminale seriale, un violentatore e un assassino. Cosciente di sé, è bravissimo a manipolare e blandire gli altri con parole seducenti. Il suo peccato maggiore è la tracotanza, la vanità. I suoi ragionamenti superficiali e banali».

Sfida la morale e sfida Dio.

«Il suo bersaglio sono le donne, in cui si incarna l’idea di famiglia: amore, matrimonio e maternità. Il suo obiettivo è annientarle più che sedurle. La lotta contro la donna diventa per lui lotta contro Dio. Che nel secondo tempo del mio spettacolo diventa il tema dominante: un’ossessione. Nel Don Giovanni di Molière c’è come una paura di Dio padre. Non a caso davanti agli altri “padri”, il suo e il Commendatore, ha una regressione».

Lei ha scelto un interprete che non si può certo definire bello.

«Alle donne non piacciono solo i bellocci ma quelli che le sfidano. A loro Don Giovanni non offre un romanzetto ma un grande sogno. È la seduzione del peccato a essere irresistibile. E Gobbi lo è. È ambivalente: dolce e violento, smodato e affascinante. Ho lavorato non sul “physique du rôle” ma sullo “psychique du rôle”».