Teatro

Il mondo contadino durante il Rinascimento

Sui palcoscenici di Chiasso (venerdì alle 20.30) e di Locarno (sabato alle 20.30 e domenica alle 17.00) Natalino Balasso porta in scena «Amori disperati in tempo di guerra», pièce in cui rivisita l’opera del Ruzante, attore e drammaturgo del XVI secolo tra gli inventori della commedia e della farsa dai risvolti politici e sociali
L’attore, drammaturgo e scrittore veneto Natalino Balasso, 61 anni. (Foto di Tommaso LePera)
Red. Online
13.01.2022 21:42

Antonio Beolco detto il Ruzante: chi era costui? Sebbene Dario Fo lo abbia ripetutamente definito la sua principale fonte di ispirazione nonché «il più grande autore di teatro che l’Europa abbia avuto nel Rinascimento» e gli storici abbiano da qualche tempo iniziato a rivalutarne la figura, per buona parte dell’universo teatrale è ancora oggi un perfetto Carneade. E questo a causa di un oblio nel quale la sua produzione è stata per secoli confinata per varie ragioni: perché proveniente da un periodo non tra i più noti della storia della drammaturgia – la prima parte del XVI secolo, dunque vari decenni prima dell’entrata in scena dei grandi padri del teatro europeo Molière e Shakespeare; perché si esprimeva in una lingua non proprio... universale (il pavano, antica e ormai scomparsa parlata dell’area padovana, spesso di difficile comprensione anche nel resto della Serenissima) ma soprattutto perché le sue opere erano in netto contrasto con le tendenze del suo tempo, dando voce non tanto alle disimpegnate «baruffe» dell’emergente borghesia – che anzi, il Ruzante descriveva sarcasticamente se non addirittura con una certa cattiveria – bensì alla componente più umile e meno considerata della società: i contadini, le loro problematiche e le loro difficoltà.

I tre protagonisti della pièce Natalino Balasso, Marta Cortellazzo Wiel e Andrea Collavino. (Foto Luca Guadagnini)
I tre protagonisti della pièce Natalino Balasso, Marta Cortellazzo Wiel e Andrea Collavino. (Foto Luca Guadagnini)

Un teatro dunque profondamente «politico» e «sociale» il suo, ancorché anticipatore di quella che sarebbe poi stata la Commedia dell’Arte, sostanzialmente inviso dalle classi dominanti e che solo di recente è stato riscoperto e valorizzato grazie ad alcuni suoi epigoni. Il già citato Dario Fo, in primis, il cui teatro giullaresco è discendente diretto di quello del Ruzante, ma anche Franco Parenti, il francese Jacques Copeau e, adesso, un suo conterraneo: Natalino Balasso, personaggio tra i più controcorrente della scena italiana contemporanea che questo fine settimana – venerdì 14 gennaio al Teatro di Chiasso, sabato 15 e domenica 16 gennaio a quello di Locarno – mette in scena uno spettacolo dal titolo: Balasso fa Ruzante - Amori disperati in tempo di guerra in cui fa sostanzialmente un sunto dell’opera di Antonio Beolco. «Come molti, Ruzante l’ho conosciuto a scuola, ovviamente senza capirci niente», spiega il sessantunenne attore, registra e drammaturgo veneto. «Poi quando ho cominciato a fare teatro, mi è venuto in mente che avrei potuto proporlo, spinto anche da Marco Paolini che nel 2001 mi fece notare delle assonanze con lui. Beh, ci ho messo vent’anni, ma alla fine eccomi qui...»

L’AUTORE Angelo Beolco, detto Ruzante (Padova 1496 circa -1542), figlio di un medico, ebbe un’educazione raffinata. Forte dell’amicizia e della protezione del grande letterato Alvise Cornaro, cominciò da giovane a  scrivere e organizzare spettacoli con l’aiuto di giovani nobili padovani, ognuno dei quali assumeva il nome del personaggio che portava solitamente sulla scena; Beolco scelse per sé quello di Ruzante, tipo di contadino padovano sensuale, famelico e poltrone, divenuto poi protagonista di buona parte delle sue opere. Le quali, scritte prevalentemente in dialetto pavano ma spesso caratterizzate dall’intreccio di diversi linguaggi, occupano un posto del tutto eccezionale nell’ambito del teatro rinascimentale; popolate da personaggi di «villani» rudi ed elementari, improntate a un’esaltazione semiseria dell’energia grezza degli istinti, devono molta della loro forza alla comicità violenta e amara che le pervade e al dirompente realismo espressivo. Maturata in un ambiente di raffinata cultura, la produzione di Ruzante (una ventina di opere, tutte pubblicate postume) risolve nelle pieghe del dialetto le istanze più vive della  linguistica rinascimentale e rielabora, stravolgendole, le tradizioni del teatro classico e popolare, spesso sbeffeggiandole.
L’AUTORE Angelo Beolco, detto Ruzante (Padova 1496 circa -1542), figlio di un medico, ebbe un’educazione raffinata. Forte dell’amicizia e della protezione del grande letterato Alvise Cornaro, cominciò da giovane a scrivere e organizzare spettacoli con l’aiuto di giovani nobili padovani, ognuno dei quali assumeva il nome del personaggio che portava solitamente sulla scena; Beolco scelse per sé quello di Ruzante, tipo di contadino padovano sensuale, famelico e poltrone, divenuto poi protagonista di buona parte delle sue opere. Le quali, scritte prevalentemente in dialetto pavano ma spesso caratterizzate dall’intreccio di diversi linguaggi, occupano un posto del tutto eccezionale nell’ambito del teatro rinascimentale; popolate da personaggi di «villani» rudi ed elementari, improntate a un’esaltazione semiseria dell’energia grezza degli istinti, devono molta della loro forza alla comicità violenta e amara che le pervade e al dirompente realismo espressivo. Maturata in un ambiente di raffinata cultura, la produzione di Ruzante (una ventina di opere, tutte pubblicate postume) risolve nelle pieghe del dialetto le istanze più vive della linguistica rinascimentale e rielabora, stravolgendole, le tradizioni del teatro classico e popolare, spesso sbeffeggiandole.

Un mondo lontano
«Di Ruzante mi piace molto la descrizione che fa del mondo contadino», continua Balasso. «Un mondo ormai lontano da noi e che non possiamo conoscere, perché è quello del Cinquecento, con tutte le sue particolarità e le sue crudeltà, ma le cui vicende possono parlare anche all’uomo di oggi. Ed è quello che ho cercato di fare: dopo aver letto le sue opere ho infatti scritto un testo originale ma di stampo “ruzantiano” che mantiene intatta la visione della società di quel tempo e i rapporti al suo interno, come quello tra i due sessi, con la donna che era totalmente dipendente dall’uomo, ma anche quelli di forza esistenti tra chi era padrone dei campi e chi li doveva lavorare. Sulla base di quella drammaturgia, ho poi cercato dei testi di Ruzante che potessero inserirsi in quei contesti, riscrivendoli però completamente. Anche sul fronte del linguaggio è stato fatto un grande lavoro: per rendere il tutto comprensibile al pubblico ho usato dunque una miscela di italiano e di fiorentino antico ma con molti venetismi: il tutto attingendo ai diari di Antonio Pigafetta, un navigatore vicentino che scriveva in fiorentino ma che non rinunciava ad utilizzare termini della parlata della sua terra d’origine. Il risultato è una parlata comprensibile ma che allo stesso tempo sa di passato».

Tre amici e tre fasi della vita
In questo quadro Balasso ha ambientato la sua storia che ha tre protagonisti: Ruzante, Gnua e Menato, tre amici i cui rapporti si sviluppano , spiega Balasso, «lungo tre fasi della loro vita: quella della gioventù, dell’eros campestre , di amori crudeli e di un erotismo fatto di carnalità e di possesso. Poi c’è il quadro drammatico delle guerre, della scoperta dell’altro e infine un ultimo momento cittadino, quando finita la guerra i tre si ritrovano a Venezia, centro mercantile in cui le dinamiche sono diverse rispetto alla campagna e che costringe questi personaggi a cambiare, in un certo senso a diventare adulti, più cinici: soprattutto Menato e Gnua che avendo vissuto sulla loro pelle le trasformazioni della società provocate dalla guerra hanno dovuto adattarsi, al contrario di Ruzante che proprio in quanto alle armi non ha percepito i cambiamenti e che, una volta tornato, spera che tutto sia come prima. Ma non è così».