L’intervista

«Il Papio, realtà viva tra il cielo e il mondo»

Il ricercatore locarnese Lorenzo Planzi ripercorre in un volume la storia del Collegio di Ascona
Pier Francesco Pancaldi Mola (1739-1783) San Carlo approva i progetti del Collegio. Chiesa di Santa Maria della Misericordia, Ascona.
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
21.12.2018 06:00

Luogo simbolico e istituzione educativa e culturale d’eccellenza nel nostro Paese, il Collegio Papio di Ascona rappresenta anche un ponte culturale tra Svizzera e Santa Sede, ricco di storia, di spunti e di aspetti più o meno indagati. A riannodare i fili di questa peculiare vicenda cominciata nel lontano 1584 ci ha pensato lo storico e ricercatore Lorenzo Planzi, che del Papio è stato allievo, che ha appena dato alle stampe per i tipi di Armando Dadò l’esaustivo volume «Il Collegio Papio di Ascona. Da Carlo Borromeo alla diocesi di Lugano». Planzi che oggi lavora a Roma per il Fondo nazionale svizzero, presso gli Archivi vaticani e la Pontificia Università Lateranense, ha risposto alle nostre domande.

Lorenzo Planzi, partiamo da una considerazione personale: che cosa ha significato per lei che è molto legato, anche a livello famigliare, al Papio scriverne una storia così approfondita e dettagliata?

«La storia parte sempre da luoghi concreti, nei quali è immersa la nostra vita. Quel luogo simbolico che rappresenta il Collegio Papio di Ascona, dove sono stato studente in un passato non troppo lontano, ha reso possibile un itinerario di ricerca. Una strada che mi ha portato ad esplorare gli archivi di Ascona e Lugano, ma anche dell’abbazia benedettina di Einsiedeln e persino del Vaticano. Ma lo stesso cammino mi ha portato ugualmente a mettermi all’ascolto delle voci, esili o impetuose, dei protagonisti di oggi e di ieri del destino del Collegio asconese. La varietà delle fonti e degli approcci suggeriti ha portato a questo libro, che accompagna il lettore in un affascinante viaggio alla scoperta del Collegio Papio, quale laboratorio di fermenti educativi, ecclesiali, ma anche culturali e politici. Questa stessa storia ha, d’altra parte, già stupito un ragazzo liceale di ieri, chiamato oggi a scrivere queste pagine, al quale è stata per la prima volta trasmessa da un narratore eccezionale. Durante una messa nella mistica chiesa di Santa Maria della Misericordia, il nostro rettore don Mino Grampa ci ha svelato l’inatteso. Come in un film, alla luce dei soli ceri accesi, il rettore ci aveva raccontato la vicenda di Bartolomeo Papio. Scrivere questo libro è stato quindi per me un confronto con le radici dell’educazione ricevuta in dono, ma anche con il destino nei secoli del Collegio, quale ponte culturale tra Svizzera e Santa Sede».

Andando alle origini di questa secolare istituzione educativa del nostro Paese è curioso notare come in pochi pur conoscendone da sempre il nome sanno perché il Papio si chiama così.

«Il nome del Collegio Pontificio Papio è indissolubilmente legato al nome della personalità che l’ha fortemente sognato e desiderato, ovvero l’asconese Bartolomeo Papio, nato ad Ascona nel 1526, che emigra a Roma, giovanissimo, accompagnando suo padre. Al servizio della famiglia Orsini, scova un tesoro lavorando nel loro giardino. Onestamente lo restituisce ai suoi datori di lavoro, che gliene lasciano però una parte in dono. Per suo conto il Papio avvia così, nella campagna romana, un fortunato allevamento, che gli frutta ingenti entrate. Ricco, anzi ricchissimo, fa ritorno ad Ascona nel 1564, dove costruisce un palazzo sul Lago Maggiore, il più alto e maestoso, ossia l’attuale Municipio di Ascona. Muore, gravemente ammalato, nel 1580, lasciando alla vedova una rendita annuale, nonostante la definisca nel testamento litigiosa. Il palazzo di Ascona e un forte lascito li destina invece alla creazione di un seminario. Secondo lo stesso spirito il Cavaliere Papio finanzia, a Roma, gli studi teologici di un ragazzo di Ascona, il giovane Pietro Berno, futuro gesuita e martire in India. Nel suo sogno di un Collegio ad Ascona vede un modo più ampio, non avendo prole, di farsi padre nei secoli».

La figura chiave rimane tuttavia quella di Carlo Borromeo: in che modo le vicende del cardinale e futuro santo si intrecciano con la genesi del Collegio asconese?

«Alla morte di Bartolomeo Papio, papa Gregorio XIII – al quale è indirizzato il testamento dell’asconese – incarica il cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, di provvedere alla fondazione del Collegio di Ascona. Curiosamente, nonostante quel lembo del Lago Maggiore appartenga alla diocesi di Como, il breve pontificio sancisce che il futuro Collegio apparterrà alla giurisdizione ambrosiana. Da Milano, il Borromeo giunge così una prima volta ad Ascona nel giugno 1583. Accompagnato dall’architetto Tibaldo Pellegrini, procede ad un sopralluogo del palazzo di Bartolomeo Papio. Ma i due, il cardinale e l’architetto, lo ritengono inadatto, per la posizione in riva al lago, a causa delle parole oscene dei barcaioli che i ragazzi potrebbero sentire. Il genio di San Carlo giunge così a proporre uno scambio ai terrieri di Ascona: il cardinale arcivescovo di Milano propone di cedere alla comunità asconese il palazzo Papio, in cambio dell’antica chiesa di Santa Maria della Misericordia, con l’annesso conventino domenicano. Il diplomatico scambio è acclamato dalla popolazione, felice soprattutto di sbarazzarsi dei litigiosi domenicani provenienti dalla vicina Penisola. Precipitosamente San Carlo rientra ad Ascona una seconda volta, nel dicembre 1583. Mentre una terza ed ultima volta il cardinale fa ritorno nel Borgo, stanco e gravemente malato, il 30 ottobre 1584, al tramonto della sua vita. Davanti alle autorità e alla popolazione, fonda canonicamente il Collegio, accogliendo i primi studenti. Quattro giorni dopo muore a Milano, e ad Ascona dimentica... la sua berretta cardinalizia.

La secolarizzazione ottocentesca porta alla progressiva perdita d’importanza del Papio fino all’abbandono totale alla fine della Prima guerra mondiale: ci vuole sintetizzare questa fase di declino?

«In un filo di drammaticità intensa, il libro ripercorre le diverse stagioni nella storia del Collegio. A due secoli di saggia conduzione da parte degli oblati milanesi succede, nell’Ottocento, la complessa svolta della secolarizzazione. Il Papio diviene uno stravagante ginnasio cantonale, poi gineceo femminile e istituto di lingue e commercio. Soltanto dal 1878 il nuovo Governo conservatore riesce ad affidare nuovamente il Collegio alla Chiesa. Il Papio è così diretto da preti diocesani, salesiani italiani, assunzionisti francesi, che abbandonano però il Collegio nel 1917. Gli stabili rimangono tristemente chiusi. I suoi soli abitanti sono, sul finire della Prima guerra mondiale, i soldati dell’esercito elvetico, che vi dormono sulla paglia. Al tempo della grippe del 1918 l’antico Collegio diviene un lazzaretto. Mentre nel 1922 le autorità cantonali pensano di sussidiarvi la creazione di un istituto per discoli. Ma il progetto non va in porto. Gli edifici in disfacimento, i muri sbrecciati, le porte desolatamente chiuse, il Collegio Papio diviene “Niemandsland”, ossia terra di nessuno».

Il libro dedica ampio spazio però alla stagione novecentesca della gloriosa rinascita a cominciare dal lungo periodo benedettino: come e perché il Papio risorge dalle sue ceneri?

«Dopo cento altre prove, il destino del Collegio Papio sopravvive anche alla sconsolante chiusura della Prima guerra mondiale. Durante gli anni Venti, Ascona è un villaggio di pescatori. Le stalle delle mucche sono più numerose delle boutiques, mentre le reti da pesca sventolano in riva al lago. Le porte del Collegio rimangono sbarrate. Ma di chiusura o abbandono non vuole sentir parlare il tenace vescovo di allora, mons. Aurelio Bacciarini. Per riprendere le redini del Papio bussa così alla porta dell’abbazia benedettina di Einsiedeln, chiedendo ai monaci di riaprire il Collegio di Ascona, istituendovi un ginnasio e un liceo per l’educazione cattolica delle nuove generazioni della Svizzera italiana. L’unico liceo aperto all’epoca è, infatti, quello cantonale di Lugano, diretto da Francesco Chiesa. Le ansie del vescovo ticinese vengono comprese dai monaci di Einsiedeln, che accolgono l’ardito invito. Una risurrezione per il Collegio di Ascona rappresenta, così, l’arrivo dei benedettini nel 1924. In Collegio i monaci non trovano, secondo le cronache, un solo locale che sia abitabile, al riparo dal sole e dalla pioggia. Ma non si demoralizzano. Sotto la sapiente guida di padre Fridolino Segmüller ingaggiano operai e muratori, ma sono loro stessi i primi artefici degli intensi lavori che permettono, nell’autunno 1927, al Collegio di riaprire le sue porte agli studenti. I monaci, come i personaggi dei capolavori di Dostoevskij o Bernanos, entrano nella vita delle persone che incontrano, nella vita del Borgo. La loro è una vera galleria di figure mitiche. Ad Ascona si distinguono per la generosità nel ricostruire un Collegio che non era loro, per la tenacia nella conquista della maturità federale nel Ticino – grazie al diplomatico intervento dell’ex allievo Giuseppe Motta – per il coraggio nell’ospitare studenti di origine ebraica durante la Seconda guerra mondiale, per la sensibilità nell’intrecciare rapporti con gli artisti e scrittori di lingua tedesca ad Ascona, alcuni dei quali si convertono al cattolicesimo. L’incendio del 1960, appiccato da due studenti, è una ferita profonda in questo periodo d’oro nella storia del Papio. I benedettini abbandonano così la direzione del Collegio nel 1964, aggiornando fedelmente, durante quarant’anni, il “Diario Ascona”, che è come un esame di coscienza alla luce della sera. Lo scrivere è, per i monaci, un richiamo ai valori eterni. Il miracolo della loro intensa presenza ad Ascona è l’aver saputo unire la passione per l’educazione e l’amore dell’infinito».

Per arrivare alla contemporaneità. Lei, che conosce bene quella realtà anche dall’interno, parla di «passione totalizzante»: perché e qual è oggi il ruolo di questa secolare istituzione educativa nel contesto cantonale e nazionale?

«Dal 1964 in poi, il Collegio Papio è guidato dall’Amministrazione apostolica del Ticino (diocesi di Lugano dal 1971 in poi). Al suo timone si succedono i rettori mons. Martino Signorelli, don Aldo Lanini, don Franco Riva, mons. Mino Grampa, don Patrizio Foletti. Uomini e preti, dai temperamenti certo diversi, ma che hanno donato un periodo della loro vita alla passione per l’educazione, prestando i loro volti alla voce dell’umanità di Dio tra le nuove generazioni. Nei secoli il destino del Collegio, scolpito in un corpo a corpo tra il cielo e il mondo, è immerso in una storia sottile, intricata, misteriosa. Eppure la sua anima rimane, sino al tempo presente, sempre viva, accesa, luminosa. È questa la conseguenza più visibile, o forse il miracolo della “passione totalizzante” per l’educazione che caratterizza il Papio sino ad oggi. Nel contesto cantonale e nazionale il Collegio Papio è e rimane una realtà viva ed insostituibile, capace di un singolare effetto generativo, a prezioso servizio della cultura e dell’educazione nella società contemporanea».