Il ritratto di Cinciarda

A Firenze c’era un barbone che viveva fra gli alberi e nei sottoscala, in un bugigattolo seminterrato in cui si sdraiava a far passare la notte. Di giorno girava per le strade a cercare elemosina, pane, vino e chiacchiere. Si chiamava Cinciarda. Pietro Annigoni, pittore delle regine e dei Santi, qualche volta lo aveva ritratto a olio o disegnato; poi gli fece un grande ritratto che espose in una sua mostra fiorentina. Il Cinciarda si presentò all’inaugurazione. Davanti al palazzo fra gli invitati alla cerimonia, i commessi gli proibivano l’entrata e lui gridava risentito: «Io voglio entrare, perché mi sono sempre servito dall’Annigoni!» L’artista ne fu informato e poco dopo il Cinciarda era con lui davanti al proprio ritratto.
L’episodio me lo raccontò lo stesso Annigoni, che talvolta andavo a trovare. Si salivano scale ardue nel suo studio in Borgo Allegri, e lui, che aveva mosso i pennelli per Elisabetta d’Inghilterra e altri reali, era lì vestito quasi come il Cinciarda, col grembiule da lavoro, macchiato di colori felici. Gli piaceva il Rinascimento, primitivo e terminale, e credo che ci si sarebbe trovato a suo agio. Certe sue opere sono grandiose e sembra che la sua presenza nel Novecento fosse una forzatura. Il suo tardo rinascimentalismo lo condannava a vivere fuori epoca, con un pennello che si adeguava ma intingeva colori in una tavolozza abbandonata da qualche maestro di quattro secoli prima. In cima alle scale la porta si apriva alla luce e all’ordinato disordine degli artisti. Aveva tanti disegni e piccoli oli qua e là. Pensai che se ne avesse venduto uno a fin di bene per il Cinciarda, quello ci avrebbe mangiato per un anno. Ma il barbone ormai se ne era andato, fissato solo nella memoria di una tela come un sacco pulcioso che esce alla luce. Una specie di divinità dei poveri, dei subalterni, degli ultimi della classe arrivati forse primi in un’altra vita, nella luce uguale, forse, a quella dell’alba che talvolta gli arrivava da una finestra rettangolare del bugigattolo sottoscala da dove, come il poeta Sandro Penna a Roma, e come le cucitrici di bandiere di Umberto Saba, vedeva sfilare le scarpe dei passanti. Bernard Berenson scrisse che Annigoni «rimarrà nella storia dell’arte come il contestatore di un’epoca buia per la pittura. Occorre avere mente eletta per comprendere la sua opera, eppure è capito da tutto il popolo, perché sa parlare al popolo il linguaggio che è dei cuori puri».
Del Cinciarda i vecchi fiorentini ricordavano il pastrano, il cappellaccio e l’andatura da barbone, poiché nella sua solenne miseria era un barbone autentico. Passava per le strade rasentando i muri, aveva sempre un fazzolettaccio che gli usciva dalle tasche. Viso tondo ma un po’ scavato e corroso, questuava pane e bicchieri di vino. Gli studenti lo rispettavano, e credo che tutti ne avessero un rispetto per la sua pittoresca foggia di stracci che conteneva un’anima inquieta, ribelle ma sedata dalle avversità. Di solito certi barboni maledicono il cielo; vanno a dormire con le stesse nascenti e si svegliano con il grido martellante dei piccioni.
