Il personaggio

«Il teatro? Un lungo e affascinante gioco»

È stato un San Valentino speciale per Antonio Ballerio: da decenni volto tra i più popolari del teatro ticinese, l’attore e regista ha tagliato il traguardo degli ottant’anni
© CdT/Chiara Zocchetti
Red. Online
15.02.2021 06:00

La sua vita trascorsa sul palcoscenico è frutto di una vocazione o della casualità?

«Entrambe le cose. Ho infatti sempre amato il teatro, tanto che da piccolo preferivo i burattini ad altri giochi. Ad un certo punto una grande passione per il disegno e la pittura mi ha portato a frequentare un corso di scenografia: segno anche questo di un’attrazione nei confronti del teatro che però si è manifestata nella sua interezza solo più tardi».

Ovvero?

«A Milano frequentavo l’Accademia di Brera e di conseguenza la scena artistica meneghina all’interno della quale regnava una grande eccitazione, soprattutto nel settore delle arti figurative. Però quel teatro che avevo iniziato a frequentare come spettatore da ragazzo rimanendo talmente affascinato da studiare scenografia, continuava a rimanermi in testa. Così quando il regista e scenografo Luigi Pizzi mi procurò un lavoretto in tv come aiuto costumista, non ci pensai un attimo: mi trasferii a Roma, dove entrai nella squadra del regista Antonello Falqui. Con lui feci miei primi due lavori : Addio giovinezza con Ornella Vanoni, Nino Castelnuovo e Gigliola Cinquetti e Felicita Colombo con Franca Valeri, Tino Scotti, Gino Bramieri e una giovanissima Ottavia Piccolo. Insomma, in poco tempo mi ritrovai nel giro della RAI: benvoluto, con una discreta paga e a contatto con grandi star, Jacques Tati, Sylvie Vartan, Caterina Valente, Don Lurio... Come costumista feci anche un film, I Due Pompieri con Franco e Ciccio: un periodo felice durante il quale mi divertii tantissimo».

© CdT/Chiara Zocchetti
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Però...

«Però volevo fare di più. Quindi lasciai la RAI e mi iscrissi ad una scuola attoriale, lo Studio di Arti sceniche di Alessandro Fersen. Dopodiché grazie allo scenografo Gianni Polidori entrai in contatto con Gli Associati, una cooperativa di attori della quale facevano parte Giancarlo Sbragia, Sergio Fantoni, Ivo Garrani, Luigi Vannicchi e altri nomi importanti della scena teatrale. Una compagnia nella quale entrai come scenografo e aiuto-regista e dove ho iniziato a recitare: dapprima una sola battuta, poi ruoli più rilevanti fino ad arrivare, dopo qualche anno, a posizioni di primo piano».

Una lunga gavetta, dunque. Ma com’era quell’universo teatrale?

«Affascinante e stimolante. Se uno aveva volontà e determinazione, le opportunità c’erano. Era un periodo in cui le compagnie lavoravano parecchio, facevano tournée di otto, dieci mesi: non ci si fermava quasi mai. Un teatro insomma diverso da quello di oggi in cui si soffriva meno la concorrenza di cinema e tv e popolato da grandi attori e registi».

Un mondo interessante che l’ha spinto ad allontanarsi dalla tv dove era così ben introdotto: non c’è del rimpianto per quella scelta?

«No, non ho rimpianti, anche se ogni tanto mi chiedo cosa sarebbe potuto accadere se non avessi preso una decisione così drastica, se avessi mantenuto un piede in RAI. Allora però non ebbi dubbi, sorretto dalla solidità che una struttura come quella degli Associati mi garantiva nella quale mi trovavo benissimo e avevo ruoli importanti. Ecco, questo puntare sulla sicurezza e su lavori di qualità mi ha accompagnato sempre, anche quando, sciolti gli Associati scelsi di lavorare al Teatro Stabile di Roma con Squarzina, rinunciando nuovamente alla tv e ad uno sceneggiato con Giulio Bosetti. O quando, tornato a Milano, preferii un contratto con Franco Parenti ad un’offerta del Piccolo Teatro».

© CdT/Archivio
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Una scelta questa importante...

«Vero. E che con il senno di poi è stata un errore, ma condizionata da due elementi: un miglior trattamento economico (elemento non secondario allora) e il fatto di non essere stato chiamato per lavorare con con Strehler ma con Ferruccio Soleri. Per cui optai per il Pier Lombardo, anche perché nel frattempo ero entrato in un settore che, se all’inizio frequentavo con un po’ di snobismo, alla fine si rivelò di grande successo e estremamente divertente, il doppiaggio, dai cartoon I cavalieri dello Zodiaco alla soap opera Sentieri e che, in un certo qual modo, mi indirizzò verso Lugano».

Può spiegarsi meglio?

«Nell’ambiente dei doppiatori venni a conoscenza che alla Radio della Svizzera italiana si faceva dell’ottima prosa. Presi contatto con Ketty Fusco, allora responsabile dei radiodrammi e con la quale iniziai a lavorare. Lei mi fece poi incontrare Alberto Canetta che curava invece le commedie e che realizzava spettacoli teatrali. Anche in quel caso la cosa procedette passo dopo passo: iniziai con un Riccardo III dapprima alla radio e poi in teatro, poi il rapporto si intensificò tanto che entrai a far parte del Teatro La Maschera e mi trasferi in Ticino. Poi ci fu la creazione della Compagnia Luganoteatro con Ketty Fusco e Silli Togni che divenne poi Labyrinthos e tante splendide esperienze in un ambiente stimolante e con compagni d’avventura straordinari. Come quelli con cui mi sono ritrovato a lavorare, prima del lockdown, al LAC».

Un nuovo e radicale cambio di orizzonte, dunque. Anche in questo caso senza rimpianti o, ogni tanto, si è pentito di aver lasciato l’Italia?

«No, anche perché, rispetto al passato, non tagliai completamente i ponti: per un po’ ho infatti continuato a lavorare con la compagnia Franco Parenti così come nel cinema: con Carlo Vanzina, in particolare, con cui ho girato negli anni ‘80 e ‘90 sei o sette film con attori come Montesano, Pozzetto, Villaggio, ma anche con Sorrentino ne Le conseguenze dell’amore».

Anche nel suo rapporto con il cinema ha seguito lo stesso copione sperimentato con la tv: tante opportunità ma senza crederci mai fino in fondo. O sbaglio?

«Forse è vero. Però quello è un ambiente in cui bisogna essere aggressivi, ambiziosi. Cosa che non sono: ho sempre privilegiato situazioni più tranquille. E questo perché, in fondo, ho sempre considerato il mio mestiere un grande gioco, non molto diverso da quello che facevo da bambino quando mi dilettavo con le marionette fantasticando ma senza prendermi troppo sul serio».

Un gioco che, spente le 80 candeline, intende continuare?

«Certamente, ma senza particolare assillo, badando a fare cose che mi piacciono. I recital, ad esempio, con i quali valorizzare la parola, il linguaggio. E il lavoro con i giovani dai quali giungono sempre straordinari input. Come quelli che mi ha regalato La Bottega del Caffè realizzata per il LAC e che spero si riesca al più presto a riportare in scena».

© CdT/Archivio
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