Cinema

In «Favolacce» la fiaba cerca di rendere meno dura la realtà

Ne parliamo con Fabio D’Innocenzo, coregista del film premiato alla Berlinale e ora nelle sale ticinesi
Elio Germano in «Favolacce». © FILMCOOPI
Antonio Mariotti
07.10.2020 20:50

All’ultima Berlinale si è aggiudicato l’Orso d’argento per la miglior sceneggiatura e, dopo l’anteprima svoltasi nei giorni scorsi a Lugano, da oggi Favolacce di Damiano e Fabio D’innocenzo è in programmazione nelle sale ticinesi. Nell’ambito dello Zurich Film Festival abbiamo sentito Fabio, per parlare di questo film originale e sconvolgente.

Com’è nata la vostra sceneggiatura : la dimensione fiabesca era presente fin dall’inizio oppure si è aggiunta in seguito a quella realistica?

«La sceneggiatura del film è nata con una dimensione realistica molto dura e immediatamente abbiamo cercato un modo per far sì che questa durezza venisse filtrata attraverso uno sguardo più atipico e quindi siamo arrivati alla favola, che è anche un simbolismo per mostrare quella pratica di rimozione che avviene spesso e che utilizziamo tutti per superare le tragedie. Tra i presupposti della favola c’è infatti anche il fatto di manipolare gli accadimenti ed è qualcosa che facciamo più spesso di quel che diamo a vedere».

Una favola, anzi una favolaccia, che viene detta da una voce narrante che si capisce e non si capisce a chi appartiene: un altro punto di forza del film?

«Il fatto di non dichiarare di chi è questa voce, fa sì che possa appartenere a chiunque, anche a noi che vediamo il film. Questa scelta ci ha lasciato la possibilità di non chiudere le alternative e di non circoscrivere le vicende ai soliti pochi. La nostra intenzione è stata quella di aprire il film, che è un film complicatissimo, al più alto numero di persone possibile, spingendo lo spettatore verso un’emancipazione di pensiero».

Un’emancipazione di pensiero che si ritrova anche nell’ambientazione del film, un contesto anonimo ma caratterizzato fortemente dall’accento di tutti i personaggi. È un contrasto molto netto che è importante per voi?

«Le contrapposizioni sono molto numerose, questa è una fra le tante. Nel film non ci sono coordinate geografiche chiare, nonostante l’accento che colloca la storia nei dintorni di Roma, una Roma camaleontica che può sembrare il frutto del disegno di un bambino. Un’altra contrapposizione molto forte è quella tra il narrare questa storia con una fotografia molto solare, molto calda per ritrarre dei rapporti umani molto freddi. Per noi le contraddizioni negli esseri umani sono molto affascinanti».

Il film si svolge in una provincia, che potrebbe essere anche quella americana o svizzera, priva di un centro a cui fare riferimento, che si trasforma in una sorta di magma indefinito dove più che altrove si sviluppa questo disagio oppure il disagio è ovunque?

«Il disagio è ovunque, ma è vero che la provincia è un luogo diverso dalla periferia ed è importantissimo per noi mostrare come la provincia possa contenere alla base delle storture sociali all’interno di un contesto che può sembrare più bucolico, più anonimo, più tranquillo, più “vacanziero”. È facile prevedere la tragedia in una periferia degradata, è molto più complicato prevederla in provincia, ma leggendo i giornali ci accorgiamo che spesso i fatti più tremendi vengano commessi da persone insospettabili in luoghi insospettabili. In questo contesto di imprevidibilità e di contrasti volevamo indagare quelli che siamo un po’ tutti noi, appartenenti a una generica middle class. Tutto ciò ci ha portati a pensare che la middle class sia uno stato della mente, che può essere visualizzato in mille modi tutti altrettanto interessanti. Abbiamo scelto la stilizzazione, pensando che la storia fosse già sufficientemente chiara e realistica e che neppure una cornice così astratta riuscisse a sottrarre il realismo alle vicende narrate nel film».

Tra tutti i vostri personaggi, quello del Professore è il più impressionante ma anche il più anonimo, come mai?

«È un personaggio chiaramente contradditorio, estremamente negativo, che non rappresenta un solo personaggio bensì un simbolo: quello dell’educazione e dei valori che vengono tramandati al di fuori della famiglia, che vanno oltre il DNA. È un’iperbole all’interno della quale si riconoscono i semi di meccanismi umani come la vendetta, il senso di riscatto, la voglia di non essere un capro espiatorio. Sentimenti che nella vita possono tradursi anche in eventi che non potremmo mai neanche immaginare. Il fatto che il personaggio del professore sia anonimo è un modo per ribadire che spesso il disagio viene covato nei luoghi dove normalmente dovremmo sentirci al sicuro. E spesso questa finta sicurezza nasce da una nostra pigrizia nel riuscire a recepire quelli che sono i segnali d’allarme che ci arrivano dalla realtà che ci circonda, come possono essere i silenzi di un bambino».

E il fatto che nella società di oggi non si intravveda più nessun valore è una tendenza senza ritorno?

«Quando la mancanza di valori non è riempita da nuovi valori si raggiunge l’esegesi del nichilismo. Questo nichilismo permea la storia, ma noi non ci riteniamo nichilisti, anzi siamo estremamente fiduciosi che possa continuare ad essistere un’indipendenza di sguardo e una capacità di lettura che vada oltre tutto ciò che è omologazione – riguardo alla società, la politica, le fonti d’informazione – e porti a sviluppare dei codici di comunicazione interiore con la propria sensibilità. È di questo che abbiamo bisogno e nel film i bambini in qualche modo scelgono un viatico estremamente drammatico che è una forma di ribellione. In un film dove nessuno sceglie, in cui tutti ricevono gli inviti della vita in maniera passiva, i bambini comunque compiono una scelta, quella di farsi da parte e in questa scelta c’è un grande coraggio. Non demonizziamo la famiglia in generale, ma la famiglia intesa in senso classico, con strutture gerarchiche molto definite, in cui non c’è una democrazia di pensiero e una comunicazione fertile. Le nuove generazioni hanno la fortuna di potersi aggregare anche da un punto di vista virtuale e questo fa sì che la loro rete possa espandersi al di fuori dei confini del proprio Paese. Da questo punto di vista, il virus ci permette oggi di reinventare il presente: non è detto che tornare a quella che era la nostra vita di tutti i giorni possa essere qualcosa di positivo. La normalità alla quale ci siamo assuefatti senza nemmeno pensarci, potrebbe non tornare. Ciò che abbiamo vissuto in Italia nel corso degli ultimi 20 anni non è normale e nemmeno quel che sta accadendo negli Stati Uniti con Trump, eppure lo accettiamo come se fosse l’unica possibilità concreta, mentre invece ce ne sono tantissime altre che possono essere esplorate con estrema fantasia»

Come lavorate sul set?

«Cerchiamo di fare tutto insieme e il fatto di essere gemelli si fa sentire moltissimo. Non crediamo nella telepatia però è vero che abbiamo sviluppato una sorta di codice non verbale molto forte che è anche molto redditizio sul set, perché ci troviamo d’accordo su tutto e ci basta uno sguardo per capire cosa va e cosa non va e prendere così le contromisure del caso».