Locarno 74

In missione per conto del Pardo

John Landis era l’ospite di punta della kermesse e non ha deluso le attese nella serata che lo ha visto ricevere il Pardo d’onore Manor - VIDEO
© Locarno Film Festival
Mattia Sacchi
14.08.2021 06:00

Un uomo in missione per conto... del Pardo. Era l’ospite di punta della 74.sima edizione del Locarno Film Festival e non ha deluso le attese nella serata che lo ha visto ricevere il Pardo d’onore Manor. John Landis si presenta in Ticino non solo per raccontare il suo glorioso passato, fatto di capolavori come «Animal House», «The Blues Brothers» e “Una poltrona per due”, ma anche la sua visione sul futuro del cinema e, più in generale, del mondo.

«Stiamo vivendo tempi molto strani – esordisce il 71.enne di Chicago -. Tempi dove stiamo affrontando una pandemia con tante persone che ancora credono che il coronavirus sia una problema inventato e che mettere la mascherina sia una privazione dei nostri diritti e non un modo per preservare le persone intorno a noi. Tempi dove una nazione che amo, la Gran Bretagna, vota con superficialità la Brexit e solo dopo si accorge di aver fatto una fesseria. Sarà per questo che in un momento di grande crisi per il cinema gli unici film che stanno vivendo una sorta di rinascimento siano proprio gli horror».

Appunto, la crisi del cinema. La quale però, secondo Landis non è dovuta solo al Covid-19 bensì a un problema più strutturale: «Le major ormai non sviluppano più i film lavorando con i nuovi autori e le loro idee, ma spendendo vagonate di soldi sui franchise, come i vari cinecomic. La mancanza di investimenti sugli autori e i vari “artigiani” del cinema, come costumisti e truccatori, fa sì che si perdano competenze e professionalità creando situazioni paradossali: in passato vecchie produzioni a basso budget riuscivano a offrire comunque prodotti belli, oggi si spende molto di più con risultati di qualità estremamente inferiori. Non ci sono più gli studios di un tempo anzi, posso dire che “The Blues Brothers” con ogni probabilità sia stato l’ultimo film con quel genere di produzione».

I danni al mondo cinematografico causati dalla pandemia sono quindi, piuttosto, di altro tipo: «La COVID ha amplificato il potere delle piattaforme multimediali per guardare i film. Che andrebbero guardati in sala, dove le risate o il senso di paura diventa collettivo, rendendo l’esperienza della visione di un film ancora più completa. Proprio per questo, quando vedo un ragazzo guardare un film su un telefonino, mi si spezza il cuore. Penso a registi come David Lean, che per “Lawrence d’Arabia” ha impiegato un enorme dispendio di tempo e di risorse, con migliaia di comparse, e mi chiedo come reagirebbe nello scoprire che tutti i suoi sforzi nella cura dei dettagli vengono persi nella visione del suo capolavoro su un rettangolino illuminato... E tutto questo non per vendere biglietti, ma sottoscrizioni all’abbonamento del canale di streaming: questo quindi non determina il successo di un film e appiattisce tutto».

Landis è tuttavia meno «nazista dell’Illinois» di quanto si possa pensare quando si parla di nuove tecnologie: «Il problema non è la CGI, ma come la si utilizza. Quando ho guardato il Signore degli Anelli per la prima volta sono rimasto davvero a bocca aperta. Questo perché era una tecnologia funzionale alla storia. Ma se viene abusata, mettendola in ogni scena, in ogni pellicola, allora fa perdere quella sensazione di meraviglia che è l’essenza del cinema. Il fatto che possiamo disporre di una tecnologia che ci permette di simulare in modo incredibilmente realistico la distruzione di una città non vuol dire che dobbiamo per forza distruggere la città nel film... È importante riuscire a dosare questi sistemi e sono convinto che sia possibile farli convivere con i “vecchi” effetti speciali”. E, detto da colui che 40 anni fa ha realizzato in “Un lupo mannaro americano a Londra” uno dei più grandiosi effetti speciali di sempre (la trasformazione da uomo a lupo mannaro dell’attore protagonista, ndr), c’è assolutamente da crederci.

Ma, alla fine di tutto, che si parli di tecnologia piuttosto che di idee, per il regista la cosa più importante è l’esecuzione finale: “Ho visto storie geniali venire completamente distrutte da incompetenza e banalità. E poi film che ricalcavano i soliti e ritriti cliché, come “C’era una volta il West”, diventare degli assoluti capolavori».

Sarà per questo che i film di Landis ancora oggi vengono apprezzati da nuove generazioni di cinefili: «Ma non chiamateli cult! “Animal House” o “The Blues Brothers” sono film che sin da subito hanno avuto successo e sono fatti abbastanza bene da continuare a farlo a distanza di anni. Li chiamerei buoni film. Per me un cult è un film che ha fallito al botteghino ed è stato riscoperto solo molto tempo dopo. Ci sono passato anche io con “Into the night”. Che, per inciso, mi è piaciuto tantissimo girare!».

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