L'intervista

«La coerenza critica di Plinio Martini in bilico su una faglia antropologica»

A cento anni esatti dalla nascita (venne al mondo a Cavergno il 4 agosto del 1923) quella di Plinio Martini rimane una delle figure più affascinanti del panorama letterario elvetico del Novecento
©pliniomartini.ch
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
04.08.2023 06:00

A cento anni esatti dalla nascita (venne al mondo a Cavergno il 4 agosto del 1923) quella di Plinio Martini rimane una delle figure più affascinanti del panorama letterario elvetico del Novecento. I suoi due romanzi sono considerati degli autentici best-seller svizzeri e da essi sono state tratte trasposizioni radiofoniche, televisive e teatrali; ripubblicati a più riprese, essi continuano ad essere oggetto di lettura e di studio nelle scuole. Della sua personalità e della sua opera parliamo per l’occasione con Matteo Ferrari, docente al Liceo cantonale Lugano 2, ricercatore e appassionato cultore martiniano, nonché curatore, con Mattia Pini, dell’edizione commentata de Il fondo del sacco pubblicata da Casagrande del 2017.

Matteo Ferrari, lei si occupa da anni dello scrittore ticinese: come ha visto cambiare l’attenzione della critica, del pubblico e degli studenti per la biografia e l’opera dell’autore de Il fondo del sacco?
«In realtà penso si possa dire che una certa attenzione nei confronti di Plinio Martini e dei suoi scritti sia sempre stata presente. Non siamo insomma di fronte a uno di quei casi di riscoperte postume che conoscono le storie letterarie. Un indizio in questo senso lo offre per esempio il numero di ristampe della sua opera più famosa: Il fondo del sacco ha avuto 29 edizioni in 53 anni. Più di una ogni due anni, con la maggior parte delle copie che è stata oltretutto venduta nella Svizzera italiana, da far credere che del romanzo vi sia ormai un esemplare quasi in ogni casa… È la prova di un successo costante, al quale ha sicuramente contribuito la fortuna scolastica dell’opera, certo, ma che si spiega anche per altre vie. Lo scrittore – me ne sono accorto lavorandoci – gode di un pubblico di estimatori ampio e molto variegato, che si rinnova con gli anni. E l’interesse per il suo romanzo più noto porta poi diversi lettori a interessarsi al resto della sua opera, come dimostra il buon successo che pare stiano avendo i racconti giovanili, Com’era bello di giugno a Roseto, in libreria da poco più di un mese. Poi sì, i due anniversari celebrati a breve distanza (i quarant’anni dalla morte nel 2019 e i cento anni dalla nascita quest’anno), hanno da parte loro contribuito a questa fortuna. Soprattutto sono stati l’occasione per differenziare le iniziative e far conoscere l’autore a un pubblico il più vasto possibile, anche attraverso proposte inedite. Cito solo due esempi, tra i più fortunati in termini di risposta del pubblico: lo spettacolo prodotto dal Teatro Sociale di Bellinzona e le passeggiate sui luoghi delle sue opere organizzate in collaborazione con la Fondazione Valle Bavona. Non si sarebbero tuttavia allestite simili manifestazioni se non si fosse sentito nell’aria un interesse diffuso per l’uomo Plinio Martini e per il messaggio che egli ha affidato ai suoi scritti».

Come si conciliano in Martini, il profondo e viscerale legame con la valle e la terra natia e l’abilità nel trattare temi universali che ne hanno fatto la fortuna ben oltre i confini ticinesi?
«Sono tentato di rispondere: con naturalezza. Perché Martini ha sempre e prima di tutto voluto raccontare ciò che conosceva meglio e per cui aveva anche dovuto soffrire diversi mal di pancia, ovvero il suo territorio e la cultura alla quale egli apparteneva. Grazie a una sensibilità tutta sua, lo ha però fatto arrivando alla radice di questioni esistenziali che hanno casa in tutto il mondo. Per dire: si possono leggere i due romanzi di Martini come una guida per scoprire la Val Bavona e il Ticino di una volta. Sarebbe forse un approccio in parte riduttivo, eppure già solo questo potrebbe bastare ad appagare il lettore… Ci si accorgerebbe però subito che i temi trattati sono universali: il bilancio di una vita e il confronto con i successi e i fallimenti incontrati strada facendo, il persistere dell’amore (nel «Fondo») o la sua scoperta durante l’adolescenza (nel «Requiem»), la necessità e al tempo stesso la difficoltà di lasciar andare qualcosa che finisce… Un lettore potrebbe leggere questi romanzi dall’altra parte del mondo, senza nessuna idea di dove sia la Val Bavona, e troverebbe comunque, secondo me, di che appassionarsi».

Attraverso i suoi due romanzi, le opere in versi, i racconti, i diari, le lettere e gli altri scritti «minori», come possiamo sintetizzare la poetica dello scrittore di Cavergno?
«A sintetizzare il messaggio e il pensiero di un autore si corre sempre qualche rischio. Di Martini si può tuttavia dire a conti fatti come gli elementi di fedeltà prevalgano sulle pur vistose rotture che vi sono state. E non penso solo alla più visibile (e in passato parecchio discussa) svolta politico-religiosa, ma anche a una questione più latamente stilistica: Martini ha toccato generi e stili molto diversi tra loro, è persino arrivato a prendere le distanze da opere composte in precedenza, ma in fondo con mezzi diversi ha provato a rilanciare sempre le stesse domande, che in lui e in tutta la sua generazione nascevano dal fatto di trovarsi a vivere su una faglia antropologica evidente, un cambio d’epoca che metteva tutto in discussione. La coerenza della sua ricerca emerge a maggior ragione oggi, quando la conoscenza della sua opera si è estesa a ritroso fino alle soglie della vocazione letteraria (i primi racconti, le prime poesie) e ha coinvolto anche il pendant privato dell’autore (la corrispondenza, il diario). Mi rendo però conto che la premessa rischia di essere più lunga della risposta, e dunque formulo un’ipotesi più diretta: Martini è un autore che è riuscito a guardare il locale e a vederci l’universale. Che ha raccontato con trasporto un mondo che svaniva nel momento in cui da questo mondo si voleva soprattutto prendere le distanze (un mondo al quale oggi invece siamo sensibili, certo non senza opposte infatuazioni). Che ha saputo raccontare una civiltà alpina con slancio lirico e al tempo stesso con lo spirito pungente di chi malgrado l’amore mantiene lo sguardo critico».

In che misura si può affermare che la fortuna di Martini è legata anche al grande interesse che Il fondo del sacco nella Svizzera di lingua tedesca suscitò fin dalla prima metà degli anni Settanta e come descriverebbe il romanzo per invogliare un giovane a leggerlo?
«Penso che il pubblico di lingua tedesca legga Martini principalmente perché trova tra le sue pagine quel Ticino che vive nel suo immaginario e che insegue quando cala a sud delle Alpi. Con un giovane invece (non solo un giovane svizzero di lingua italiana) penso che insisterei sull’esperienza dell’alterità rappresentata dal fatto di leggere un libro che racconta di un mondo che non c’è più, ma che vale la pena conoscere, anche solo per farlo reagire con il nostro mondo di oggi. E questo al posto di insistere sull’attualità dell’opera, come pure si potrebbe fare. Sono cosciente di osare un’operazione in controtendenza rispetto ai tempi (e per questo sono conscio della possibilità di fallire), ma trovo più bello che siano i giovani a scoprire l’eventuale attualità delle opere e a raccontarmela. E non è detto che vedrebbero nei testi le stesse cose che vedo io. Infine, consapevole che Il fondo del sacco rappresenta oggi la porta d’ingresso priviligiata all’universo Martini, aggiungerei anche di non dimenticarsi che lo stesso autore ha scritto un altro romanzo, diverso, forse più esigente, eppure bellissimo, il Requiem per zia Domenica».

Plinio Martini fu anche uomo del suo tempo, indimenticato insegnante e intellettuale attivo in politica. Può aiutarci a ripercorrerne la biografia dal punto di vista dell’impegno civile?
«Che sia stato indimenticato come insegnante occorrerebbe chiederlo ai suoi allievi; di sicuro è stato per certi versi un maestro innovatore e per altri come dice lei un uomo del suo tempo. Un docente che portava in aula discorsi stimolanti ma anche che sapeva farsi sentire quando riteneva fosse necessario farlo. Durante una conferenza che fu chiamato a tenere nel 1964 ai preti della diocesi Martini si definì un cattolico “per cui la vita stava nella domanda”, una persona cioè che riteneva la fede “non un dono ricevuto una volta per sempre, ma piuttosto una conquista giornaliera e faticosa, in una lotta che non può aver fine se non con la morte”. Penso che questo approccio dubitativo possa essere esteso a ogni ambito della vita dello scrittore. Plinio Martini è stato un uomo che ha avuto il coraggio di manifestare i propri dubbi sul mondo che lo aveva tenuto a battesimo. Altri questo mondo lo volevano semplicemente sovvertire o cancellare; Martini volle prima di tutto capirlo».

In conclusione, quanto ha ancora da dire Plinio Martini ai lettori, ticinesi e non, del futuro?
«Sarei curioso, se in futuro si celebreranno ancora gli scrittori e se ci saranno altre celebrazioni martiniane, di misurare in quell’occasione come sarà evoluto – se sarà evoluto – il rapporto dei lettori nei confronti dello scrittore. Adesso come adesso non saprei dirlo. Come lettore appassionato di Martini, prima ancora che come studioso, spero soltanto che non si sopisca l’interesse per le sue opere. Spero anzi che la curiosità spinga chi abbia apprezzato uno dei due romanzi a leggere altro dello stesso autore. Dopo tante manifestazioni e tanto parlarne pubblicamente sarà infatti giusto che i riflettori si spengano. Ed è lì che mi piacerebbe sapere che le sue pagine – ciò che di Martini più deve contare secondo me – continueranno a essere lette».