La storia

La difficile Guerra fredda dei fieri comunisti ticinesi

L’originale ricerca universitaria di Tobia Bernardi ripercorre le complicate vicende di una realtà politica e sociale cantonale numericamente poco rilevante ma capace di sopravvivere anche in un contesto di estrema ostilità
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
28.09.2021 21:03

Tra gli aspetti più interessanti delle nuove tendenze della storiografia ticinese si va profilando in questi ultimi anni un’attenzione inedita per le vicende novecentesche dei partiti politici nostrani, favorita forse dalla necessaria distanza temporale ed emotiva dal secolo delle ideologie. Un ulteriore tassello in questa originale e preziosa opera di ricostruzione del nostro passato ci viene dal recente lavoro del giovane storico Tobia Bernardi (classe 1990) che, con il titolo suggestivo Da Oriente viene la luce del sole, approfondisce, in un notevole volume pubblicato dalla benemerita Fondazione Pellegrini Canevascini, la storia del movimento comunista in Ticino durante la Guerra fredda. Una ricerca particolarmente rilevante, (frutto del certosino lavoro universitario di Bernardi che ora insegna al Liceo di Mendrisio) perché esplora una fase quasi dimenticata della storia politica cantonale (si concentra sul quindicennio tra il 1944 e il 1959) fornendo spunti ed elementi che vanno ben al di là della numericamente marginale presenza comunista nel Paese.

«In effetti - precisa l’autore - benché marginali, i comunisti rappresentano una presenza costante nella storia politica cantonale e riescono non solo a sopravvivere per tutto il Novecento, in un contesto fortemente anticomunista come quello svizzero e ticinese, ma anche a rendersi protagonisti di alcune, interessanti pagine di storia cantonale. Penso ad esempio al sostegno alla causa repubblicana durante gli anni della guerra civile spagnola o alla battaglia per l’epurazione nel Secondo dopoguerra. A spiegare la poca considerazione storiografica di cui godevano i comunisti concorrevano sinora anche difficoltà di ordine documentario, dovute all’assenza di un vero archivio di partito. Proprio quello della raccolta delle fonti ha rappresentato, in effetti, il primo e forse più importante ostacolo che ho dovuto superare, ed è soltanto grazie alla scoperta di alcune carte ancora inesplorate (gli archivi di Virgilio e Silvano Gilardoni e i fondi della polizia politica, depositati presso l’archivio del Ministero pubblico federale) che ho potuto cominciare davvero la mia ricerca».

Quasi dottrina di Stato
L’ampio saggio di Bernardi tratta solo marginalmente gli anni Venti e Trenta, durante i quali è attiva in Ticino una minuscola sezione cantonale del Partito comunista svizzero (PCS). Consacra invece gran parte delle ricerche alla storia del partito che, pur con diverse denominazioni, sopravvive per tutta la seconda metà del secolo, giungendo fino ai giorni nostri: il Partito operaio e contadino, dal 1963 Partito ticinese del lavoro (e dal 2007 Partito comunista). Esso viene fondato proprio nel 1944 come sezione cantonale del Partito svizzero del lavoro (PSdL), che prende il posto su scala federale del defunto PCS, dichiarato illegale nel 1940. Il 1959 diventa per lo studioso ticinese una data periodizzante all’interno della storia del partito, in quanto segna il rientro in Parlamento di Pietro Monetti, all’epoca il più autorevole esponente comunista a livello cantonale, e simbolicamente, la fine del periodo più duro della Guerra fredda. Ma anche in un altro senso il volume di Bernardi si rivela particolarmente apprezzabile: può essere letto in controluce come una storia, per molti aspetti dimenticata, dell’anticomunismo cantonale e nazionale.

«A partire dagli anni Venti - ci spiega Tobia Bernardi - l’anticomunismo trova in Svizzera un terreno decisamente fertile, al punto da diventare, con le parole di André Rauber, una “quasi dottrina di Stato”. Nel periodo da me studiato, che coincide con le fasi più acute della Guerra fredda, i comunisti sono oggetto di un’opera sistematica di sorveglianza e di schedatura da parte delle autorità di polizia, devono sopportare un certo numero di discriminazioni (si pensi al Berufsverbot) e subiscono forti pressioni sociali (si pensi soltanto a quelle dopo i fatti di Ungheria del 1956). In questo senso, per scrivere la storia dei comunisti ticinesi è stato indispensabile ricostruire le principali scansioni cronologiche, gli attori e gli elementi costitutivi di quello che possiamo definire il “discorso anticomunista” e delle pratiche ad esso connesse. Il quadro che ne emerge è quello di un’azione di sorveglianza e di repressione del tutto sproporzionata rispetto all’effettiva pericolosità dell’organizzazione comunista che, al di là degli evidenti limiti e degli importanti e innegabili errori di giudizio, resta pur sempre fedele alle regole del gioco democratico e non rappresenta certo una minaccia per la sicurezza e la protezione politica dello Stato. Certo - prosegue lo storico - se l’azione dell’apparato poliziesco può legittimamente far sorridere l’odierno lettore (si pensi alle riunioni origliate alla Casa del popolo, o ai pedinamenti effettuati tra le varie stazioni ferroviarie del Cantone), è bene ricordarsi del fatto che in sostanza venne introdotto, nella democratica e liberale Confederazione elvetica, il reato di opinione nei confronti dei comunisti».