La primavera nella tradizione

Le contingenze delle ultime settimane e un inverno meno rigido del solito, probabilmente hanno mutato la nostra percezione delle cose. Basta tuttavia guardarsi attorno con un pizzico di attenzione per rendersi conto che qualcosa sta mutando: le ore di luce sono aumentate, i prati si sono colorati del giallo delle primule, sui rami degli alberi iniziano a sbocciare i fiori e gli uccelli riempiono l’aria coi loro richiami. La primavera insomma è tornata. E ci ritornano in mente le parole di un Sergio Maspoli stupito di fronte a piccoli particolari della stagione: «On butt da verd, formigh in procession, sui lastri da granid. E gh’è ‘n verdon ch’a canta a salt in la gabbietta» (un ciuffo di verde, formiche in processione su lastre di granito. E c’è un verdone che canta a scatti nella gabbietta). La vita dunque si risveglia potente e brulicante in ogni luogo. Dalle rive dei fossi alle cime ancora innevate spuntano nuovi tocchi di colore.

Il sole è finalmente tornato a dare vita e luce a monti e campagne. «Senza penei, ne carta, ne cului, ul su al ta fà di gran capulavui!» (senza pennelli né colori, il sole fa grandi capolavori). Le parole di Angelo Bottigelli, in dialetto bustocco, spiegano bene lo stupore per questo ritorno di colori intensi. Il poeta mette al centro il sole, è lui il protagonista di questo grande ritorno alla vita. Infatti, proprio quest’oggi, giorno dell’equinozio, il grande astro tornerà a illuminare in due spicchi perfetti la Terra sorgendo quasi perfettamente a est. Da lì in poi i giorni supereranno in lunghezza le notti riscaldando di nuovo la terra. Dicono in Brianza «A Sant’Isepp sa tira ol fiaa: ol dì e la nocc hin long ingua». Sopra Monza hanno un po’ fretta e il detto anticipa la data: San Giuseppe, infatti, cade il diciannove, si tira quindi il fiato perché la notte e il giorno sono lunghi uguali ed è finito dunque il triste inverno. Altri eventi fissi sono legati all’equinozio marzolino, nei proverbi di tutt’Italia e infatti «A San Benedett i ronden sott al tett». Arrivate quindi le rondini sotto ai tetti, la primavera è ormai dichiarata dai garriti che riempiono il cielo.

Ma questo particolare periodo dell’anno a cavallo dell’equinozio ha anche altre qualità che nel tempo non sono sfuggite all’acume popolare. Infatti la natura ci regala i bei panorami rinverditi e gioiosi, le delizie del rinnovato canto degli uccelli e i primi tepori della bella stagione ma può anche riservarci situazioni che tradizionalmente fanno di marzo il mese intemperante per eccellenza. Il dialetto lombardo vuole essere chiaro e inappellabile: «Marz l’è fioeu d’ona baltrocca; o pioeuv, o tira vent, o fiocca» (marzo è come il figlio di una baldracca, o piove o tira vento o nevica) non ci sono attenuanti. A Brescia però lasciano qualche speranza: «Mars, marsù, tre dé catif e giù dé bù» (marzo, marzone, tre giorni cattivi e uno buono). È quindi un mese instabile e pazzo che non si decide mai e del quale conviene sempre diffidare, anche in annate balorde come quella che stiamo vivendo. Nella prosa di Bonvesin de la Riva, maestro milanese del Trecento, il mese è descritto terribile e quasi mostruoso e in preda al delirio: «Marzo, dal volto in furia e dai capelli scarmigliati, scosso da frequenti aneliti, apre la tumida bocca e si esprime con turbini». Ma dato che marzo è mese pazzerello anche nei dialetti ci sono incomprensioni, mentre tutti si lamentano del clima impazzito a Tirano sono ottimisti: «De marz se trà via cuèrt e calz»; a Ponte, sempre in Valtellina, oltre alle coperte e alle calze ci si tolgono anche le scarpe («marzìn, marzèt, trà via scarpi e calzet»). I mantovani in fondo alla pianura non si fidano ancora «an stat a cavar al vestì fin ch ‘l nespola n l’è fiorì» (non ti togliere il vestito fin a che il nespolo non sia fiorito). In pianura altri detti sembrano increduli dell’arrivo della primavera, «On fior soll el fa minga primavera», tuttavia il dialetto milanese è pieno di espressioni che rivelano lo stupore per i particolari della stagione. Si approfitta delle feste per «quatass de fior» (coprirsi di fiori) e gli occhi vengono attratti dal «sgoratta d’i parpaj», lo svolazzare delle prime farfalle.

Marzo è il mese folle per eccellenza anche per antichi usi e costumi che lo caratterizzavano da sempre. Il nome del mese viene infatti da Marte, dio della guerra. Per millenni le guerre sono cominciate infatti a marzo o giù di lì. Il tempo diventava più accettabile per le manovre e soprattutto, col primo sole, tornava nei campi e nelle marcite l’erba che serviva per muovere i cavalli essenziali alla guerra. È infatti anche il mese del cavallo e di tutti gli equini tant’è che spesso a marzo si riaprono le gare e i concorsi ippici dopo il forzato stop invernale dovuto ai terreni gelati. Forse anche il detto «matto come un cavallo» ha qualcosa a che fare con questo periodo atmosfericamente pazzerello? Ancora non si sa per certo però gli astrologi cinesi garantiscono che il segno del cavallo sia il più volubile, doppio, forte e vitale e generoso ma anche fiero e indomito: una descrizione insomma degna di marzo durante il quale al di là delle possibili bizze, la primavera è ormai arrivata. E se proprio nei prossimi giorni la situazione dovesse mutare, riportando quel freddo che credevamo di esserci lasciati alle spalle, non bisogna corrucciarsi perché, come dicono a Poschiavo, «primaéra tardita l’è mai falida» (la primavera che ritarda non delude mai).