Sestante

La Valle di Blenio raccontata di madre in figlia dall’Ottocento ad oggi

Incontriamo Mariarosa Bozzini all’ex Hotel des Alpes di Corzoneso e con lei scopriamo storie che raccontano decenni di miserie e di successi nella valle
Mariarosa Bozzini, memoria storica della valle di Blenio e presidente onoraria dell’Archivio Donnetta © CdT/ Chiara Zocchetti
Carlo Silini
12.10.2019 06:00

Non avremmo mai pensato, salendo lungo i tornanti che portano dal fondovalle al villaggio di Corzoneso, che entrando nella grande casa gialla sul promontorio (© CdT/ Chiara Zocchetti) avremmo trovato un condensato di storie, oggetti e immagini in grado di raccontare l’anima della Valle di Blenio meglio di un libro o di un museo.

Il merito di questa scoperta va ascritto a Mariarosa Bozzini, una signora sorridente e gentile che ci accoglie nell’edificio che fino a qualche decennio fa era una pensione col nome un po’ pomposo di «Hotel des Alpes». Qui vive Mariarosa e qui, in un modo o in un altro, sono riuniti ricordi che rappresentano un’intera valle. Storie di sussistenza e fatica, di emigrazione, di violenza, d’ingegno e di fede, d’arte, di successo sociale e di fallimento. Ma anche di scoperte folgoranti, come quella di Roberto Donetta, pioniere della fotografia svizzera morto in miseria nel 1932. La signora Bozzini dischiude il suo regno, ci offre un caffé e apre il libro dei ricordi, seguendo il filo del sangue che le pulsa in vena, risalendo a ritroso la catena delle donne, forti, dalla quale è poi discesa lei.

Angela e il merluzzo

C’è molta Val di Blenio nella storia della casa gialla di Corzoneso. Ma, visto che, per raccontarla, abbiamo scelto di utilizzare il filtro delle donne, dobbiamo partire da Milano. Qui, la capostipite della vicenda si chiama Angela Sorgesa, bisnonna di Mariarosa. «Vendeva merluzzo sui Navigli insieme al marito e di lei dicevano che quando tornava a casa la sera doveva usare il carretto per trasportare i ‘‘palanconi’’, che erano monete grosse e pesanti. Da bambina questo dettaglio mi impressionava». Il marito, in ogni caso, è morto a Milano «e secondo me è anche uno dei primi ad essere stato sepolto al Cimitero monumentale. Fatto sta che, rimasta vedova, Angela è tornata a vivere a Cumiasca, frazione di Corzoneso, e per tutta la vita è stata chiamata “la sciora’’». Angela tra l’altro è stata immortalata, letteralmente, dal Donetta, che l’ha fotografata sul letto di morte, dando un’intima testimonianza dell’asciutta condizione dei bleniesi d’antan.

Rachele e l’Hotel des Alpes

I Sorgesa erano patrizi di Corzoneso. Nella nostra storia il personaggio più notevole della famiglia si chiama Rachele: era la nonna di Mariarosa. «Aveva sposato Angelo Bozzini di Corzoneso, un bell’uomo con poca voglia di lavorare, e avevano avuto 12 figli (sopra, la foto di Roberto Donetta con la famiglia di Angelo e Rachele, al centro in prima fila). Era una donna eccezionale. I primi due figli li aveva fatti studiare ed erano diventati maestri, come mio padre. Gli altri erano perlopiù macellai. Aveva un forte spirito imprenditoriale. Era stata lei, attraverso un gioco di scambi di piccoli terreni (a volte in perdita: scambiando cioè terreni grandi con terreni piccoli, ma più vicini a quelli già in possesso della famiglia), a organizzare e riunire le proprietà del clan.

E soprattutto aveva individuato in questa casa, costruita dal padre di suo marito, il luogo dove creare verso la fine dell’Ottocento la pensione “Hotel des Alpes”. Ci lavoravano lei e alcune zie: una era bravissima in cucina, un’altra faceva la postina... Nel primo periodo ci venivano in vacanza i milanesi. D’estate nonna Rachele affittava una carrozza per portare i clienti sul Lucomagno o a Disentis».

All’ultimo piano

Dopo gli anni Venti sono arrivati i luganesi «e quando arrivavano tutta la nostra famiglia si trasferiva all’ultimo piano, quello dove ci troviamo ora. L’ambiente era piacevole: c’erano due pini per l’ombra e un grande berceau. La domenica venivano anche i dottori della valle perché si mangiava bene e si spendeva molto, molto poco». A un certo punto è arrivato il momento degli emigrati bleniesi. «Si trattava di famiglie che erano partite per l’Inghilterra o per la Francia a fare i vedriatt e non abitavano più qui. Tornavano in valle nel periodo della caccia. Ricordo che mio papà teneva i cani da selvaggina di alcuni di loro. Comunque, i migranti in Inghilterra compravano brocche e zuccheriere d’argento nelle aste britanniche e poi le portavano da noi. Cancellavano le scritte originali e ci incidevano “Hotel des Alpes” (vedi foto sotto, © CdT/ Chiara Zocchetti). Facevano grandi feste, mangiavano e bevevano. Ma soprattutto amavano esibire il successo sociale ottenuto all’estero. Avevano penne Parker col pennino d’oro. Ricordo uno di loro che si accendeva il sigaro con un biglietto arrotolato da dieci franchi».

La bell’Annina e i mirtilli

Figlia di nonna Rachele e maestra, la zia Annina «era una donna molto bella e di grande energia. Ma non si è mai sposata. A vent’anni è stata colpita dalla tisi e le hanno dovuto togliere un polmone. È sempre vissuta qui a Corzoneso. Pare avesse un amore: un console, dicevano. Di sicuro non poteva averlo conosciuto qui, forse a Davos. Di certo so che un pittore inglese passato dalla pensione le aveva fatto un ritratto, doveva esserne invaghito. Il quadro è sparito, ma abbiamo una fotografia in bianco e nero dell’opera. Per il resto era molto religiosa, era una teresina laica e aveva fondato la cosiddetta ’’Fraternita’’. Ricordo che durante la seconda guerra mondiale aveva organizzato una raccolta di mirtilli per ricavare qualche guadagno per il paese. Tutti gli abitanti avevano partecipato, anch’io, che ero piccola». Raccoglievano i mirtilli e li pulivano. Poi li mettevano dentro scatole di legno: «Il falegname di Acquarossa forniva i pezzi e noi bambini assemblavano le scatole per cinque centesimi l’una. Ogni scatola conteneva 5 chili di mirtilli. Li si spediva alle pasticcerie della Svizzera interna. La zia aveva organizzato anche una coltura di carote da spedire oltre San Gottardo. Ricordo anche che partiva da Corzoneso e andava a Bellinzona a parlare con alcuni politici socialisti. Eppure, anche se lei era PPD, otteneva tutto quello che voleva. D’altra parte uno di loro veniva qui a mangiare la domenica...»

Florinda e lo zio d’America

Una ruvida storia di emigrazione, di sangue sparso tra poveracci, di sensi di colpa, cose non dette e di grande dignità riguarda la mamma di Mariarosa, Florinda. «Nata Guzzi, la mamma era di Personico, in Leventina. Aveva uno zio, Aurelio, che faceva il maestro ed era stato allievo di Stefano Franscini, quando il Franscini insegnava a Bodio. Come molti altri, era emigrato in America a fare il taglialegna. Ancora oggi conservo alcune sue lettere. Una è straziante perché descrive la malinconia delle montagne... In famiglia dicevano che là in America i nostri boscaioli si riconoscevano quando succedeva qualcosa di brutto, non so: se cadevano, se venivano colpiti da un ramo..., perché bestemmiavano in dialetto e allora gli altri ticinesi capivano che era uno di loro. La storia dello zio Aurelio è maledetta perché a un certo punto, mentre stava portando i suoi risparmi in banca, qualcuno l’ha aggredito e ucciso portando via i suoi averi».

Le ultime volontà

Il fattaccio era avvenuto forse cinquanta o sessant’anni prima che Mariarosa nascesse. «Solo, aggiunge oggi, che alcuni decenni dopo, quando ero bambina a Giornico qualcuno era arrivato a dire: ’’C’è il Zep che vuole parlarvi’’. Il Zep era un vecchio sul letto di morte. E noi, io e mia mamma, siamo andate al suo capezzale. Ricordo un odore..., come dire?, caldo e tremendo. Lui ci aspettava e quando siamo arrivate ha parlato: ’’Florinda, devo dirti una cosa prima di morire’’. Parlava in dialetto, ma il concetto era questo: i soldi di tuo zio sono qui in paese “e i ha mia portò fortuna. Tu vo’ savé al nom da chi ha amazoo to zio?’’. E ricordo mia mamma che senza tentennare gli aveva risposto subito ’’no’’. Lo ricordo con grande affetto. Mi aveva colpito tantissimo».

Lo «zio». Insomma, era stato ucciso da un compaesano e qualcuno sapeva chi era il colpevole. Di certo non doveva averne ricavato alcun vantaggio, visto che il Zep aveva svelato che quei soldi non avevano portato fortuna al ladro.

La riscoperta del fotografo Roberto Donetta

In fondo alla catena di donne legate alla storia di Corzoneso (vedi articolo principale) c’è Mariarosa Bozzini, definita da «La voce di Blenio» custode della memoria collettiva bleniese. Oltre a conservare gli oggetti e i ricordi di famiglia, non ha mai smesso di osservare con curiosità il piccolo mondo nel quale è cresciuta. Così, ad esempio – e in questo risiede probabilmente il suo maggiore merito culturale - non si è limitata a tenere le foto in bianco e nero scattate ai suoi antenati, ma ha cominciato ad interessarsi all’autore di quelle immagini, Roberto Donetta (1865-1932, sopra casa Donetta a Corzoneso © CdT/ archivio). In una trentina d’anni ha raccolto centinaia di lastre di vetro disseminate nel paese ignorando i brontolii di suo padre. «Mi diceva: ma perché ti occupi del lavoro di quel nuius lì? Lui, l’aveva conosciuto come l’uomo difficile che era e non capiva il mio interesse nei suoi confronti. Tutti a Corzoneso lo consideravano un originale e un fannullone. Del resto era morto in assistenza».

Testimone della vita arcaica

Ma lei non si è fermata. Si è buttata in anni di paziente e intelligente lavoro: si trattava di stampare le lastre, di cercare di identificare le persone ritratte (sopra, una delle foto del Donetta), di capire il valore storico e artistico di quegli scatti. Con l’aiuto di diverse donne del paese, tra cui Egidia Bozzini, (per il riconoscimento delle persone) e di esperti e appassionati (tra gli altri: Alberto Flammer, Marco Franciolli, David Streiff e Antonio Mariotti), Mariarosa è riuscita nell’impresa di far scoprire alla valle, al Ticino e all’intero Paese l’opera seppellita di un autentico pioniere della fotografia svizzera, «testimone della vita arcaica nella sua valle natale e del lento arrivo della modernità», come si sarebbe poi scritto.

Le prossime ricerche

A ottant’anni d’età, ma non li dimostra affatto, Mariarosa potrebbe anche osservare compiaciuta la propria raccolta di ricordi, diventati patrimonio dell’intera valle. Ma non si ferma. «Le vede quelle scatole?», mi dice accompagnandomi in un locale direttamente sotto il tetto della mansarda. «Contengono più di duecento lettere scritte fra il ‘500 e il ‘600. Me le hanno portate perché le esaminassi. E ho già trovato una storia interessante per il nostro comune che però per il momento non posso rivelare», ammicca. Faticando, ci teniamo la curiosità pensando che - grazie a questa donna - la val di Blenio potrebbe di nuovo scoprire un’altra parte dimenticata di sé.

Quei piccoli capolavori raccolte tra le stalle

Mariarosa Bozzini vive all’ultimo piano del caseggiato giallo in cima al promontorio che domina l’avvallamento di Corzoneso dove, a poche decine di metri l’una dall’altra, ci sono la chiesa dei santi Nazario e Celso e la casa comunale. Qui nonna Rachele aveva avviato l’avventura dell’Hotel des Alpes, chiusasi negli anni Settanta del secolo scorso. Oggi l’appartamento rimodernato e mansardato che nei tempi andati ospitava l’intera famiglia è quasi un museo della memoria.

Sulle pareti ci sono strappi di affreschi che decoravano le stalle. Toccante il dettaglio di una crocifissione, intonacata sopra una pioda (foto sopra © CdT/ archivio). Il Cristo, grondante sangue, è a capo chino, ma il dipinto è di tratto delicato, ispira pietà, non orrore. Molto vivace la tela settecentesca di un San Giuseppe col bambino. Il piccolo sorride mentre regge un mazzetto di gigli stando in braccio al genitore.

«La storia è questa: la sorella di nonna Rachele aveva sposato un membro della famiglia Nodiroli, emigrata a Milano. Per dimostrare il successo ottenuto nella metropoli, i Nodiroli avevano comprato il quadro all’asta per regalarlo alla chiesa di Corzoneso. Spesso gli emigranti regalavano un’opera d’arte alla parrocchia, come le vetrate della chiesa di San Nazario e Celso, donate dalle famiglie che avevano fatto fortuna in Francia. Ma a un certo punto la famiglia è decaduta. E allora il quadro è finito in una stalla del villaggio. Io l’ho acquistato da Tranquillo Nodiroli e quando l’ho preso c’era un buco nella tela. L’ho fatto restaurare e mi hanno detto che potrebbe trattarsi di un’opera dei pittori Orelli di Ascona».

Un altro notevole strappo di affresco rappresenta una ieratica Madonna, apparentemente tardo medievale, che dominava la facciata di una stalla sopra il paese. Ma c’è spazio, sulle pareti, anche per una splendida xilografia del 1941 dell’artista di Dongio Ubaldo Monico (1912 – 1983), intitolata «Dopo la pioggia» e per una stampa del pittore e poeta di Minusio Giovanni Bianconi (1891 – 1981) che rappresenta un’anziana mentre cammina per strada.

L’«ospedaa»

Storie d’arte e di emigrazione si rincorrono attraverso i secoli e sembrano confluire qui per una strana magia.

«Sa, confida Mariarosa, la mia famiglia ha avuto a che fare anche con Guido Gonzato (pittore italiano di vaglia che era emigrato in Ticino nel 1913). Negli anni Trenta era povero. Girava in motocicletta per vendere i suoi quadri».

Aprendo la finestra mi indica un caseggiato rosa sulla destra del paese: «Vede, quella era un’osteria, la chiamavamo l’ospedaa, ed è proprio lì che ha soggiornato a un certo punto il Gonzato. Fatto sta che non avendo soldi, alla fine, per saldare il conto ha lasciato alcuni suoi quadri. A un certo punto il padrone del ristorante aveva deciso di venderli, ma noi non avevamo i tremila franchi che chiedeva, mamma e papà erano maestri. Li ha poi acquistati un mio cugino».