L'intervista

«La voce sofferta di Hind Rajab è anche quella della nostra storia»

A tu per tu con Amer Hlehel, uno dei protagonisti del film «La voce di Hind Rajab», film vincitore del Gran Premio della Giuria alla Mostra del Cinema di Venezia, ora nelle nostre sale
Viviana Viri
17.11.2025 06:00

Amer Hlehel è uno dei protagonisti di La voce di Hind Rajab, film vincitore del Gran Premio della Giuria alla Mostra del Cinema di Venezia, ora nelle nostre sale. La pellicola racconta il dramma di una bambina palestinese e dei suoi soccorritori, ricostruito dalla regista tunisina Kaouther Ben Hania attraverso le registrazioni delle telefonate intercorse tra di loro mentre le autorità israeliane impedivano l’accesso dell’ambulanza. Gli abbiamo chiesto di raccontarcelo.

La voce di Hind Rajab è un film coraggioso, estremamente diretto, che racconta un caso diventato simbolo delle innumerevoli vittime innocenti del conflitto israelo-palestinese. Qual è stata la sua prima impressione sulla sceneggiatura?
«All’inizio, avevo molta paura. Non riuscivo a immaginare come raccontare una tragedia del genere mentre stava ancora accadendo. L’arte, in qualsiasi forma, richiede una certa distanza per avere profondità e resistere nel tempo. Se nasce come una reazione immediata, rischia di perdere significato. Pensare a come parlare di Gaza, mentre tutto si svolgeva, è stato davvero difficile. Ma quando ho letto la sceneggiatura, tutte le mie paure sono svanite. Kaouther Ben Hania non ha cercato di spiegare tutto, ma ha scritto qualcosa di estremamente specifico, senza mostrarlo direttamente. La sua presenza è in ogni scena: è la voce di Hind, l’atmosfera che la circonda, qualcosa che non vediamo, ma che è lì, come l’oscurità che segna la nostra vita quotidiana. Ho capito che questo film non era solo un progetto, ma un dovere che dovevo portare a termine».

Il film racconta eventi accaduti meno di un anno prima nella Striscia di Gaza; mentre giravate, il conflitto era ancora in corso. Com’è stato lavorare in quelle condizioni?
«È stato estremamente difficile, perché il peso della realtà era sempre lì, in ogni momento. A volte ci sentivamo piccoli di fronte alla tragedia che cercavamo di rappresentare. Mi chiedevo spesso quale fosse il senso di raccontare questa storia mentre la sofferenza continuava, reale, intorno a noi. Era una sensazione di impotenza, come se il cinema non bastasse. Eppure eravamo lì, giorno dopo giorno, cercando di andare avanti. Spesso dovevamo fermarci, perché qualcuno non ce la faceva più. La parte più dura era ricordare che non stavamo mettendo in scena una finzione: tutto ciò che raccontavamo stava davvero accadendo. E in quei momenti è impossibile non sentirsi sopraffatti, non perdere l’equilibrio».

Il cinema ha un grande potere, ma essere un attore palestinese significa confrontarsi inevitabilmente con la propria storia

Molti dei suoi ruoli precedenti trattano temi politici e sociali legati alla sua esperienza. In che modo pensa che il cinema possa influenzare e dare voce e visibilità a queste tematiche?
«Il cinema ha un grande potere, ma essere un attore palestinese significa confrontarsi inevitabilmente con la propria storia. La nostra lotta quotidiana permea tutto ciò che facciamo; ogni storia che raccontiamo, anche la più personale, porta con sé questa realtà. La mia esistenza, come quella di molti palestinesi, è segnata dalla Nakba, un trauma che attraversa le generazioni. Per questo motivo, non abbiamo il privilegio di ignorarla. L’arte, per me, deve raccontare la storia dell’umanità, e la nostra esperienza è parte di questa storia. Non credo che politico sia il termine giusto per definirla. L’arte deve interrogarsi sul senso della vita, e per noi, questo senso è inevitabilmente legato alla nostra realtà politica. Non possiamo sfuggirle. Sinceramente, vorrei poter raccontare storie diverse e, soprattutto, che non fosse stato necessario realizzare questo film. Per me, non è stato solo un progetto artistico, ma un grido per far conoscere la nostra storia. E anche se oggi il film sta ricevendo grande riconoscimento internazionale, non c’è molta felicità. C’è, piuttosto, la soddisfazione di sapere che finalmente il mondo è pronto a sentire la nostra voce».

Nel film Il tempo che ci rimane (2009) ha collaborato con Elia Suleiman, un autore capace di usare l’ironia in modo unico per raccontare la Palestina e il conflitto. Cosa conserva di questa esperienza?
«Sono felice di rispondere a questa domanda, perché è la prima volta che ne parlo pubblicamente. Trascorrere del tempo con Elia Suleiman è stato fondamentale per me. È stato generoso nel condividere il suo approccio al cinema, spiegandomi le sue scelte, anche quando non era necessario. Per me, il suo cinema non è solo ironico, ma soprattutto poetico. Riesce a combinare poesia e umorismo in modo raro, creando storie surreali, ma che toccano corde profonde. Con lui, tutto sembra possibile, anche senza sapere il perché. La sua visione del cinema e della Palestina è qualcosa di davvero speciale».

A oltre due anni dagli eventi del 7 ottobre, quali sono i suoi pensieri?
«Gli ultimi due anni sono stati estremamente difficili, sotto ogni aspetto. Vivere in un Paese segnato da contraddizioni profonde è stato un peso enorme. La quotidianità, come andare a scuola o al lavoro, sembra normale, ma è costantemente messa in discussione dalla realtà politica che ci circonda. Essere palestinese in Israele in questo periodo è stata un’esperienza indescrivibile, e ancora oggi non riesco a trovare le parole per spiegare davvero cosa significhi. La pesante repressione della libertà di espressione ha fatto sì che la nostra voce fosse come scomparsa. E anche dopo il cessate il fuoco, non c’è sollievo: non sappiamo quando finirà o quando tutto ricomincerà».