«La voce sofferta di Hind Rajab è anche quella della nostra storia»

Amer Hlehel è uno dei protagonisti di La voce di Hind Rajab, film vincitore del Gran Premio della Giuria alla Mostra del Cinema di Venezia, ora nelle nostre sale. La pellicola racconta il dramma di una bambina palestinese e dei suoi soccorritori, ricostruito dalla regista tunisina Kaouther Ben Hania attraverso le registrazioni delle telefonate intercorse tra di loro mentre le autorità israeliane impedivano l’accesso dell’ambulanza. Gli abbiamo chiesto di raccontarcelo.
La voce di Hind Rajab
è un film coraggioso, estremamente diretto, che racconta un caso diventato
simbolo delle innumerevoli vittime innocenti del conflitto israelo-palestinese.
Qual è stata la sua prima impressione sulla sceneggiatura?
«All’inizio,
avevo molta paura. Non riuscivo a immaginare come raccontare una tragedia del
genere mentre stava ancora accadendo. L’arte, in qualsiasi forma, richiede una
certa distanza per avere profondità e resistere nel tempo. Se nasce come una
reazione immediata, rischia di perdere significato. Pensare a come parlare di
Gaza, mentre tutto si svolgeva, è stato davvero difficile. Ma quando ho letto
la sceneggiatura, tutte le mie paure sono svanite. Kaouther Ben Hania non ha
cercato di spiegare tutto, ma ha scritto qualcosa di estremamente specifico,
senza mostrarlo direttamente. La sua presenza è in ogni scena: è la voce di Hind,
l’atmosfera che la circonda, qualcosa che non vediamo, ma che è lì, come
l’oscurità che segna la nostra vita quotidiana. Ho capito che questo film non
era solo un progetto, ma un dovere che dovevo portare a termine».
Il film racconta
eventi accaduti meno di un anno prima nella Striscia di Gaza; mentre giravate,
il conflitto era ancora in corso. Com’è stato lavorare in quelle condizioni?
«È stato
estremamente difficile, perché il peso della realtà era sempre lì, in ogni
momento. A volte ci sentivamo piccoli di fronte alla tragedia che cercavamo di
rappresentare. Mi chiedevo spesso quale fosse il senso di raccontare questa
storia mentre la sofferenza continuava, reale, intorno a noi. Era una
sensazione di impotenza, come se il cinema non bastasse. Eppure eravamo lì,
giorno dopo giorno, cercando di andare avanti. Spesso dovevamo fermarci, perché
qualcuno non ce la faceva più. La parte più dura era ricordare che non stavamo
mettendo in scena una finzione: tutto ciò che raccontavamo stava davvero
accadendo. E in quei momenti è impossibile non sentirsi sopraffatti, non
perdere l’equilibrio».
Molti dei suoi
ruoli precedenti trattano temi politici e sociali legati alla sua esperienza.
In che modo pensa che il cinema possa influenzare e dare voce e visibilità a
queste tematiche?
«Il cinema ha un
grande potere, ma essere un attore palestinese significa confrontarsi
inevitabilmente con la propria storia. La nostra lotta quotidiana permea tutto
ciò che facciamo; ogni storia che raccontiamo, anche la più personale, porta
con sé questa realtà. La mia esistenza, come quella di molti palestinesi, è
segnata dalla Nakba, un trauma che attraversa le generazioni. Per questo
motivo, non abbiamo il privilegio di ignorarla. L’arte, per me, deve raccontare
la storia dell’umanità, e la nostra esperienza è parte di questa storia. Non
credo che politico sia il termine giusto per definirla. L’arte deve
interrogarsi sul senso della vita, e per noi, questo senso è inevitabilmente
legato alla nostra realtà politica. Non possiamo sfuggirle. Sinceramente,
vorrei poter raccontare storie diverse e, soprattutto, che non fosse stato
necessario realizzare questo film. Per me, non è stato solo un progetto
artistico, ma un grido per far conoscere la nostra storia. E anche se oggi il
film sta ricevendo grande riconoscimento internazionale, non c’è molta
felicità. C’è, piuttosto, la soddisfazione di sapere che finalmente il mondo è
pronto a sentire la nostra voce».
Nel film Il tempo
che ci rimane (2009) ha collaborato con Elia Suleiman, un autore capace di
usare l’ironia in modo unico per raccontare la Palestina e il conflitto. Cosa
conserva di questa esperienza?
«Sono felice di
rispondere a questa domanda, perché è la prima volta che ne parlo
pubblicamente. Trascorrere del tempo con Elia Suleiman è stato fondamentale per
me. È stato generoso nel condividere il suo approccio al cinema, spiegandomi le
sue scelte, anche quando non era necessario. Per me, il suo cinema non è solo
ironico, ma soprattutto poetico. Riesce a combinare poesia e umorismo in modo
raro, creando storie surreali, ma che toccano corde profonde. Con lui, tutto
sembra possibile, anche senza sapere il perché. La sua visione del cinema e
della Palestina è qualcosa di davvero speciale».
A oltre due anni
dagli eventi del 7 ottobre, quali sono i suoi pensieri?
«Gli ultimi due
anni sono stati estremamente difficili, sotto ogni aspetto. Vivere in un Paese
segnato da contraddizioni profonde è stato un peso enorme. La quotidianità,
come andare a scuola o al lavoro, sembra normale, ma è costantemente messa in
discussione dalla realtà politica che ci circonda. Essere palestinese in
Israele in questo periodo è stata un’esperienza indescrivibile, e ancora oggi
non riesco a trovare le parole per spiegare davvero cosa significhi. La pesante
repressione della libertà di espressione ha fatto sì che la nostra voce fosse
come scomparsa. E anche dopo il cessate il fuoco, non c’è sollievo: non
sappiamo quando finirà o quando tutto ricomincerà».