L’anima della Big Apple nei paesaggi sonori di Steve Reich

Nel complesso panorama della musica contemporanea, i generi hanno interagito rapidamente e sensibilmente anche grazie alla capillare diffusione dell’informazione veicolata dai media: il disco in primo luogo, fonte di conoscenze, scoperte, suggestioni. E nel panorama americano, multiculturale per eccellenza, hanno dialogato ancor di più. Il caso del cosiddetto «minimalismo», musica californiana di fine anni Sessanta-inizio Settanta, appare paradigmatico: qui una serie di autori ai confini tra pop e avanguardia colta e strumenti elettrici ed acustici, da Terry Riley a La Monte Young, da Philip Glass a Steve Reich (tra i minimalisti possiamo includere anche John Adams e Michael Nyman, emersi successivamente) diedero vita a una corrente che basava le proprie creazioni sonore sulla ripetizione di cellule melodico-ritmiche e su un’affascinante ricerca del timbro e del colore strumentale. Da alcuni il gusto della ripetizione (da qui il termine minimal music) venne erroneamente equivocato come indice di povertà e limitatezza espressiva: in realtà esso va ricondotto alle influenze esercitate della musica etnica africana ed asiatica e africana, da Bali al Ghana, su alcuni dei compositori minimalisti, e in particolare su Steve Reich, che per mettere a punto il suo stile ha compiuto viaggi di studio in quei Paesi, analizzandone in particolare la ricca tradizione sviluppata su strumenti a percussione, espressa in ripetuti cicli ritmico-melodici. Ma il minimalismo ha preso le mosse anche dalla «rivoluzione concettuale» di uno dei padri dell’avanguardia americana, John Cage, teorico del silenzio e del «pianoforte preparato», ossia alterato nel suono da oggetti inseriti tra le sue corde, con effetti «orientali». Se Glass, Riley e Young ci hanno sedotto con atmosfere liquide, oniriche e immaginifiche, Steve Reich ci ha conquistato con le ampie campate dei suoi contrappunti strumentali, i suoi crescendo tematici lenti, magici, quasi inesorabili, le sue nitide armonie tonali, il suo senso quasi barocco, geometrizzante, dello spazio.
Nell’epoca delle avanguardie e della musica atonale di Anton Webern, Reich, allievo in California di Darius Milhaud e di Luciano Berio dopo la laurea in filosofia su Ludwig Wittgenstein alla Cornell University, optò intenzionalmente per un ritorno alla musica tonale, sposandola con il fascino ritmico-rituale di quella etnica, originalmente trasposta a partitura orchestrale. Newyorkese di nascita e di successiva residenza, Reich, molto attratto dalla dimensione ritmica, aveva un «pallino» anche per il jazz, avendo iniziato a studiare batteria con Richard Kolhoff. E infatti il jazz affiora in una delle sue prime composizioni, Music for Two or More Pianos, inclusa nel recente album Eight Lines, City Life (Naxos Records), che risente dell’influenza di Bill Evans come di quella di Morton Feldman, e che dopo una prima sequenza sospesa e delicata propone un brillante episodio ritmico, simile ad altre sue pagine orchestrali, e una terza parte con il pianoforte preparato, evocativa di atmosfere arcane, scure, inedite.

Steve Reich, in questo disco inciso da Klaus Simon con la Holst-Sinfonietta, dedica alla Grande Mela New York Counterpoint per clarinetti e nastro magnetico e l’esteso City Life, per ensemble. Si tratta di due brani stupendi per ricchezza timbrica, pulsionalità ritmica ed intensità, nei quali è in primo piano ora il ruolo protagonistico dei legni, che si inseguono secondo il principio imitativo proprio del canone, ora la pulsività e la resa audio (ma in fondo anche un po’ visiva, a evidenziare l’ispirazione a tratti cinematografica di Reich, e il suo ricorrente senso della drammaturgia) di un paesaggio metropolitano inclusivo di sirene, rumori e stimoli visivi. A completare il ricco programma gli argentati flauti del più naturalistico Vermont Counterpoint, che dialogano in modo circolare, con acuti pungenti, su una liquida base di nastri magnetici.