Le anatre di Central Park e il silenzio

In un famoso romanzo di J.D. Salinger, Il giovane Holden, a un certo punto il protagonista si chiede: «Io abito a New York, e pensavo al laghetto di Central Park, vicino a Central Park South. Chi sa se quando arrivavo a casa l’avrei trovato gelato, mi domandavo, e se era gelato, dove andavano le anatre? Chi sa dove andavano le anatre quando il laghetto era tutto gelato e col ghiaccio sopra. Chi sa se qualcuno andava a prenderle con un camion per portarle allo zoo o vattelappesca dove. O se volavano via». Dove vanno la anatre di Central Park quando il lago ghiaccia, è una domanda che generazioni di lettori si fanno da 60 anni, e la risposta non si trova mai. Salinger scomparve a 91 anni nel 2010, e tutta la sua scrittura, le sue opere, rimasero così, come le anatre di Central Park d’inverno. Restarono nascoste sotto la superficie ghiacciata del lago per decenni. Fino alla sua morte nessuno ha mai saputo cosa avesse scritto. E perché scrivesse senza voler pubblicare in vita.
Il tempo e l’attesa
Sono storie di silenzi e di tempi di attesa. Salinger era nato nel 1919 e aveva ancora addosso l’idea che il tempo vince su tutto, che il tempo non lo domini e ti domina. E soprattutto aveva messo assieme due concetti che raramente vengono legati assieme: tempo e silenzio, come in una vecchia canzone di Cesária Évora. Salinger ha scritto per anni sotto la superficie ghiacciata del suo lago, e dopo la morte ha lasciato che fossero ritrovati un certo numero di romanzi e manoscritti che ora stanno per essere pubblicati. Ma noi non siamo più capaci di sintonizzarci sul canale del silenzio. Il silenzio è ormai sinonimo di vuoto, di nulla, di non connessione, di assenza di comunicazione. Non è più una modalità del tempo, un contenitore necessario di quello che che portiamo con noi. Restare in silenzio significa abdicare allo stare nel mondo. All’esserci. E non sappiamo più esplorare il mondo del silenzio.
Bulimia opinionistica
C’è una scena in Sogni d’oro, il film che Nanni Moretti ha gi-rato nel 1981, dove il protagonista, il regista Michele Apicella, si infuria con i suoi amici, e dice: «Tutti si sentono in diritto, in dovere, di parlare di cinema. Tutti parlate di cinema. Tutti. Parlo mai di astrofisica io? Parlo mai di biologia io? Parlo mai di neuropsichiatria? Parlo mai di botanica? Parlo mai di algebra? Io non parlo di cose che non conosco». Nanni Moretti dice: «io non parlo di cose che non conosco. Non parlo di botanica. Ma tutti parlano di cinema». Si parla di cose che non si conoscono. Lo abbiamo visto soprattutto in questi mesi, e forse era inevitabile. Ma tutti hanno scambiato questa bulimia di opinioni, distinguo, storie (e presto arriveranno in libreria decine di libri sui giorni che abbiamo appena vissuto e stiamo vivendo) per una forma di superficialità, di narcisismo, per l’ansia di mostrarsi, per conseguenza di un tempo poco serio, dove «tutti parlano di cinema» senza saperne niente, come direbbe Moretti. Ma in realtà è una storia diversa. Non siamo più capaci di non dire, non siamo più capaci di non rispondere, non siamo più capaci di tollerare il fatto che questo mondo finisce per sfuggirci e non ne sappiamo abbastanza. Oggi tutti hanno un’opinione su dove vanno le anatre di Central Park quando il lago ghiaccia. Tutti hanno il diritto di supporlo, di sentirlo, di immaginarlo, e dunque dirlo. Avendo trasformato la parola incompetenza in sinonimo di ignoranza, l’ignoranza in sinonimo di pochezza se non stupidità, si è generata una filiera che obbliga chiunque a mostrarsi, a esprimersi, ad attraversare terreni non suoi: anche se non sai nemmeno dove sta il laghetto di Central Park saprai qualcosa di quelle anatre. Lo devi fare, perché se non lo fai non esisti. Eppure abbiamo sempre più bisogno di laghi ghiacciati, e di anatre segrete. Negli anni Novanta Prince dichiarò che avrebbe distrutto tutto il suo lavoro poco prima di morire, scatenando indignazioni, dispiaceri e persino anatemi da parte dei suoi fan. Un po’ come un grande pittore che dipinge per sé tutta la vita, a eccezione di qualche quadro esposto nelle mostre, e poi decide di bruciare le tele.
La lezione di Salinger
I cambiamenti di questi mesi ci hanno allontanato ancora di più dai laghi ghiacciati e dal silenzio necessario, dal riserbo, persino dall’idea che non lasciare troppo di sé non sia poi così sbagliato. Poco importa se quelle anatre non le ha mai viste nessuno. Eppure l’unica via di uscita accettabile è quella di darsi tempo, di prendere atto che i laghi ghiacciati esistono e che vanno rispettati. E scrivere, comporre, creare, fare nuove cose, senza esibirle subito, senza temere di non apparire e di non esserci. Verrà il ghiaccio, e sarà un inverno pieno di attese. O almeno si spera possa essere così. Perché altri modi per salvarci non ne abbiamo.