Le luci americane di Edward Hopper

Non si può ingabbiare la malinconia. Tanto più se è ambigua, sospesa, lontanissima da ogni categoria a cui noi europei, siamo abituati. Se c’è un’impressione netta che si ricava dall’ampia retrospettiva che la Fondazione Beyeler dedica in queste settimane ad Edward Hopper questa è proprio l’impossibilità di definire il grande pittore statunitense secondo le tradizionali categorie europocentriche dell’arte del Novecento. Tanto più che al cuore della raffinata esposizione renana vi è un Hopper «altro» e meno frequentato rispetto al consueto delle iconiche scene stranianti di ordinarietà urbana e borghese, visto che ci si concentra piuttosto sul suo rapporto con il paesaggio e con la natura dei suoi americanissimi luoghi. L’idea per questa mostra è nata con la cessione in prestito permanente alla Collezione Beyeler di Cape Ann Granite, un paesaggio hopperiano del 1928. L’opera, che per decenni aveva fatto parte della notissima Collezione Rockefeller, risale a un periodo in cui critici, curatori e pubblico presero a seguire Hopper con crescente interesse, fino a invitarlo nel 1929 a partecipare tra l’altro alla seconda rassegna del Museum of Modern Art di New York intitolata Paintings by Nineteen Living Americans.
Approccio inedito
Convenzionalmente nella storia dell’arte il termine «paesaggio» indica una rappresentazione della natura in antitesi a una «natura» in perenne mutamento che non può essere fissata in immagine. Il paesaggio rivela sempre l’azione dell’uomo sulla natura, cosa che i quadri di Hopper palesano in maniera sottile e diversificata. Hopper ha così inaugurato un approccio decisamente moderno a un genere artistico consolidato dalla tradizione. Svincolati dalle norme accademiche, i paesaggi hopperiani suggeriscono spazi senza limiti, idealmente sconfinati, che paiono sempre mostrare una frazione minima di un tutto immenso. La mostra comprende 65 opere dell’artista eseguite a partire dal 1909 fino al 1965 ed è organizzata dalla Fondation Beyeler in collaborazione con il Whitney Museum of American Art, New York, che accoglie nel suo fondo la più grande collezione di Hopper esistente al mondo. Come dimostra l’omaggio per immagini magistralmente creato da Wim Wenders (vedi articolo a fianco) per l’occasione, nelle sale architettate da Renzo Piano siamo di fronte ad una mostra molto cinematografica e al contempo molto cerebrale. I paesaggi di Hopper sono, come tutti i suoi quadri, intrisi di malinconia e solitudine. Non di rado comunicano sensazioni di disagio e minaccia. Nel raffrontare paesaggi rurali e paesaggi urbani Hopper denuncia nella sua opera anche l’intrusione talvolta brutale dell’uomo nella natura. L’artista ha dato un sostanziale contributo a formare l’idea di un’America malinconica, segnata anche dai lati oscuri oscuri del progresso – un enorme spazio senza confini, divenuto incredibilmente popolare soprattutto nella sua versione cinematografica, da Intrigo internazionale (1959) di Alfred Hitchcock a Paris, Texas (1984) di Wim Wenders fino a Balla coi lupi (1990) di Kevin Costner. Edward Hopper (1882-1967) nacque a Nyack, New York. Dopo essersi formato come illustratore, seguì fino al 1906 corsi di pittura presso la New York School of Art. Oltre a coltivare lo studio della letteratura tedesca, francese e russa, il giovane artista guardò specialmente a pittori come Diego Velàzquez, Francisco de Goya, Gustave Courbet ed Edouard Manet, che diventarono per lui autorevoli referenti. Sebbene avesse lavorato a lungo principalmente come illustratore, Hopper giunse alla fama grazie ai suoi dipinti a olio che testimoniano la sua spiccata propensione per gli effetti cromatici e il suo virtuosismo nel rappresentare luci e ombre. Inoltre, come abbiamo visto, Hopper seppe far scaturire dalle sue tele un’estetica che avrebbe influenzato non solo la pittura ma anche la cultura popolare, la fotografia e il cinema.
Limpide geometrie
I fari del Maine, le scogliere di Cape Cod, i graniti di Cape Ann. E poi brughiere, case sparse, fienili rossi tra le colline, strade verso il nulla, automobili e ferrovie. E ancora case borghesi, urbane, periferiche o rurali. I paesaggi nitidamente ma mai neutralmente americani di Hopper sono composizioni di limpida geometria. Elementi salienti sono proprio le case, i benzinai, i «diners», i motel, che simboleggiano l’insediamento antropico. Le linee ferroviarie strutturano i dipinti in senso orizzontale e rappresentano l’aspirazione dell’uomo a misurarsi con la vastità degli spazi. L’estensione del cielo come pure una particolare qualità atmosferica della luce – mezzogiorni abbacinanti o soffusi tramonti – lasciano percepire anche in un paesaggio statico la grandezza della natura in costante movimento. E poi le poche ed enigmatiche figure umane, le donne e le ragazze tutte diverse e tutte uguali (ispirate alla moglie Josephine) così cariche di sensualità e mistero da rimanere sospese nell’immaginario collettivo. Hopper ci descrive la realtà in maniera contemporaneamente oggettiva e soggettiva. Qui sta il suo fascino, qui il segreto per cui da certe sue tele non riusciamo a staccare lo sguardo della fantasia. Perché il suo è un linguaggio del non detto. Un ambiguo linguaggio americano.