Letteratura

Le nere commedie di Agota Kristof

Tradotte per la prima volta in italiano quattro pièces teatrali della grande scrittrice di origine ungherese
Agota Kristof è morta a Neuchâtel nel 2011. © Keystone
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
13.11.2019 06:00

Agota non ti mette mai a tuo agio. Non le interessa confortare il lettore, tranquillizzarlo, edulcorare in qualche modo la realtà che sente l’esigenza di descrivere con la brutale sincerità di chi ha troppo sofferto per mentire. Che si tratti di prosa, che si tratti di poesia o, come in questo caso, di testi per il teatro. Infatti dopo L’analfabeta (2005) e il recente Chiodi, Casagrande pubblica quattro storie, finora inedite in italiano, che Agota Kristof ha scritto proprio per il teatro: Il Mostro e altre storie si compone di quattro commedie nere (Il Mostro, La strada, L’epidemia e L’espiazione) scritte dalla grande autrice di origine magiara tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento in francese, la famigerata «lingua nemica», come risposta ai lunghi anni di silenzio e di «analfabetismo» vissuti da profuga a Neuchâtel dopo la fuga dall’Ungheria nel 1956.

Trame scomode

Di grande attualità, queste storie, pubblicate originariamente in francese da Seuil nel 2007 quattro anni prima della scomparsa della scrittrice, hanno la forza concentrata dei proverbi, dei salmi e dei sogni. Vengono proposte al pubblico in una traduzione d’autore, quella di Marco Lodoli, che nella sua introduzione al volumeo pportunamente scrive: «Per Agota Kristof la letteratura è una lama affilatissima: serve per sfrondare e poi per fissare sulla pagina le parole essenziali, quelle che raccontano il senso ultimo dell’esistenza. Ogni gradevolezza, ogni nastro colorato, ogni incanto è tagliato via di netto. Ciò che rimane è l’essenziale, cioè qualcosa che somiglia molto alla catastrofe». Un mostro che semina morte, ma che il popolo adora, inebriato com’è dal suo profumo. Un costruttore di strade che, insieme ad altri personaggi storditi fino alla più cieca ubbidienza, vaga in un viluppo insensato di asfalto e cemento. Un morbo misterioso che spinge la gente al suicidio, che riempie i boschi di impiccati. E poi mendicanti, musicisti di strada e mangiafuoco, sfruttati e derisi per la loro estraneità al cinismo sociale ma non per questo innocenti. I lati più oscuri e pessimisti della cruda poetica della Kristof trovano anche in questi testi per il teatro una compiutezza che non lascia scampo dove «il male» maramaldeggia nei misteriosi labirinti della vita. Come nella celebrata Trilogia di K. l’orizzonte è chiuso senza scampo, scorciatoie o vie d’uscita. D’altronde per raccontare il male che pervade la nostra vita e la nostra realtà non sono necessari grandi studi o immense capacità intellettuali. Come raccontava la stessa Kristof in un’intervista di una ventina di anni fa per diventare una brava scrittrice «serve invece la libertà interiore, la libertà spirituale che si può conquistare anche lavorando in fabbrica. La scrittura si nutre dell’interiorità, del vissuto personale, dei sogni, delle letture più amate».

Una vita difficile

E per la Kristof (come queste preziose pièces confermano ancora una volta) il mestiere di scrivere è stato per gran parte della sua non facile esistenza rifugio e condanna, salvezza e sfinimento. «La scrittura è quasi un suicidio» - affermò qualche anno prima di morire- «è la cosa più difficile del mondo. Eppure è l’unica che mi interessi. Anche se mi esaurisce». I testi della Kristof nascono dalle sconfitte e dai drammi della vita. Ed è proprio nel riconoscimento di un dolore vivo e autentico che il lettore trova conforto. Una notte di novembre del 1956, mentre l’Armata Rossa sta soffocando nel sangue la rivolta ungherese, Agota Kristof attraversa la foresta con il marito e la figlia di quattro mesi legata sulle spalle per arrivare in Austria. Da lì raggiungeranno la Svizzera. Giungono a Neuchâtel, dove la scrittrice vivrà fino alla morte.

Forme funzionali

Anni duri: prima la fabbrica di orologi, poi l’adattamento difficile in una comunità di immigrati, la separazione dal marito (a cui la scrittrice non perdonò mai la fuga dall’Ungheria), e l’obbligo di abbandonare l’amata lingua madre per il francese, ostile lingua «nemica» divenuta suo malgrado lingua del successo letterario e della notorietà. L’esilio, la solitudine in Svizzera, l’apprendimento del francese, rappresentano agli occhi della Kristof una crudeltà al quadrato, uno strazio che va ad aggiungersi a quello di aver dovuto lasciare il suo Paese, perdendo in questo modo (e per sempre) la sua identità e l’appartenenza ad un popolo. Per Agota, come ora si può ben comprendere anche in italiano, la scrittura teatrale si rivelò tra le più funzionali nel difficile passaggio anche culturale tra uno e l’altro idioma. Asciutta, cruda, riluttante a qualsiasi orpello e sfrondata da ogni edulcorante eccesso, incalzante come il male che descrive, ci inchioda una volta di più alle nostre colpe, alle nostre connivenze e al nostro orrore quotidiano.