L’intervista/ marilyn strathern

Le origini complesse del concetto di genere

A colloquio con la fresca vincitrice del Premio Balzan per l’Antropologia Sociale
Marilyn Strathern fin dal celebre «Women in between» si è sempre confrontata con la definizione e la costruzione sociale delle norme di genere.
Sergio Caroli
10.12.2018 06:00

Gli studi di genere costituiscono un’area di ricerca interdisciplinare che esamina i rapporti fra i sessi. Il genere, considerato come una costruzione sociale, viene studiato in tutti gli ambiti delle scienze umane e sociali: storia, antropologia, psicologia e psicoanalisi, economia, sociologia, scienze politiche. In generale, gli studi di genere s’incentrano sulla riflessione e sulla esposizione di ciò che definisce il maschile e il femminile nei diversi luoghi e nelle diverse epoche e indagano sul modo in cui le norme si riproducono al punto da apparire naturali. A Marilyn Strathern, professoressa di Antropologia sociale all’Universita di Cambridge, è stato pochi giorni fa consegnato il Premio Balzan 2018 nella disciplina in cui è riconosciuta fra le massime autorità mondiali. «Per il carattere – recita la motivazione – profondamente innovativo dei suoi contributi all’antropologia sociale e culturale, in particolare per la sua critica alla visione occidentale del genere e della parità, e per la collegata analisi del modo in cui i concetti che ci sono familiari operano in modo differente in contesti differenti». Abbiamo intervistato la scienziata a Roma.

Professoressa Strathern, come è iniziata la sua attività di ricercatrice?

«Nella costellazione nota come Melanesia, l’anno 1960 fu assai importante per il popolo di Hagen, capoluogo di Papua nella Nuova Guinea. Questo popolo, che vive sull’altopiano centrale, apparteneva ad una vasta comunità ignota agli stranieri fino al 1933. Esso iniziò a ricevere i primi proventi dalla vendita di caffè, pagando i tributi ad un organismo governativo locale, talché i termini “developement” (sviluppo) e “business” entrarono del loro idioma. Desiderosi di vedere che cosa avrebbero portato le promesse economiche dell’amministrazione australiana, si sottomisero a ciò che anche oggi chiamano la legge. Importanti figure locali aspiravano ad emulare i nuovi poteri che vedevano incorporati nei funzionari amministrativi e, non ufficialmente, designarono corti per dirimere le dispute e contribuire al mantenimento della pace. Mi apparve straordinaria la preponderanza dei casi che riguardavano le donne, che,per dirla in breve, venivano spesso accusate di provocare guai tra gli uomini. Penso che la mia carriera di ricercatrice sia iniziata allora».

Su cosa vertevano i suoi primi studi sui Papua?

«Presentai la mia proposta per una ricerca PhD a Cambridge, allora uno dei centri della British School of Social Anthropology. L’abito mentale che portai con me ad Hagen non rispondeva alla situazione di quella parte del mondo nel 1964-65. Molti dei miei sforzi furono perciò diretti alla comprensione degli imperativi strutturali coi quali le donne – che andavano a matrimonio fra clan dei loro fratelli e dei loro amici sostenendo alleanze tra uomini e donne – si trovarono prese “fra uomini” ( di qui il libro intitolato Women in between del 1972) . Pensavo dapprima che l’enfasi degli uomini sulle donne che rompevano le relazioni fra cognati, fuggendo o seguendo ostinatamente “la propria mente”, fosse il riflesso di alleanze fondate su inter-matrimoni. Si parlava costantemente di divorzio, ed io intrapresi lo studio che pensavo che avrebbe rivelato un tasso di divorzi assai elevato. Solo che elevato non lo era. Sinché non realizzai che i discorsi sul divorzio erano puri discorsi».

Ma esisteva già il concetto di genere?

«Nel 1974 stavo scrivendo un saggio di carattere generale, che poi prenderà il titolo di Prima e dopo il genere, nel quale facevo un uso incerto del termine “gender” (genere), sebbene ne avessi il concetto. Unitamente ad una schiera di antropologhe femministe, era per me importante sottolineare il bordo a due vie dell’ideologia del genere: il genere che riguarda non solo modi di pensare sull’uomo e la donna, ma anche i modi nei quali le relazioni fra uomini e donne sono usati per riflettere su altre cose. Per il mondo europeo, o euro-americano, che ha reso necessario il femminismo, analogie e differenze fra ciò che veniva percepito come maschile o femminile risiedeva in tutte le specie di stereotipi e gerarchie di valori. Questi includevano l’idea di natura e di cultura da una parte e dall’altra idee sulle libertà individuali e sulle costrizioni sociali di relazioni giocate, ad esempio, in termini di diritti e di assoggettamento. Lo scopo comparativo dell’antropologia consente di guardare anche altrove, laddove le relazioni di genere organizzano e sono organizzate da concetti centrali per la vita sociale. In Hagen, per esempio, la capacità di entrambe di parlare in pubblico, come richiesto da un pubblico di ascoltatori, è la qualità maschile: nessuna meraviglia che le donne fossero in larga misura obiettivo passivo – e in questo senso poco collaborativo – di preoccupazioni pubbliche maschili».

Il suo libro più famoso e acclamato è The Gender of Gift, pubblicato nel 1988. Può esporne sinteticamente i contenuti?

«In questo studio della società Highland in New Guinea espongo il concetto che le persone melanesiane sono “individuali”, nel senso che la personalità nasce dalle relazioni con gli altri e dalle relazioni continue che ogni persona si impegna a stabilire. In altre parole, le persone in Melanesia sono “autodefinite”. L’aspetto individuale della persona risiede nel fatto che essa è composta dalle sostanze e dalle azioni degli altri, ovvero, da componenti dell’intera comunità. I melanesiani non concettualizzano la vita sociale in termini di individuo contrapposto alla società. Nel libro introduco anche il concetto che gli oggetti sono creati non in contraddizione con le persone ma fuori dalle persone. Offrendo regali, le persone offrono una parte di se stesse. I doni non sono simboli di una persona, sono invece estrapolati da uno e assorbiti da un altro. Questa continuità tra le persone e gli oggetti costituisce uno scambio mediato: una logica del dono in contrasto con la logica delle merci (caratteristico di occidentali), che è radicato in una fondamentale discontinuità tra le persone e le cose. Questa logica delle merci consente agli occidentali di localizzare potere, possesso e controllo sociale in relazione all’individuo unitario».

Il dono, quindi, come costellazione di significati ...

«Proprio così. Negli scambi di doni dei melanesiani, il dono stesso è moltiplicato dai rapporti che l’hanno prodotto e scambiato; le cose fanno parte della comunità e possono avere, diciamo, un’ “agenzia” e sono le stesse persone a cambiare quando inseriscono nelle loro vita nuove relazioni. I doni non sono solo inseparabili dalle relazioni sociali, ma creano anche nuovi rapporti sociali. Le concezioni melanesiane del genere sono allo stesso modo relazionali, nel senso che gli organi possono essere visti come dipendenti maschili o femminili in particolari contesti e situazioni; non c’è corrispondenza “data” tra biologia e genere, e le persone sono concepite come compositi dei contributi di genere di ciascun genitore».