«L’esempio di Leone Ginzburg, antifascista armato di cultura»

Dimenticata, avvolta da un inspiegabile oblio fatto di prudenza, riserbo e quasi di sommesso disagio anche nelle cerchie famigliari e amicali a lui più vicine, la figura di Leone Ginzburg, splendido suscitatore di cultura e fiero oppositore del fascismo fino all’estremo sacrificio, sta riemergendo con forza negli ultimi anni. Ne parliamo con lo storico Angelo D’Orsi, autore di «L’intellettuale antifascista», appassionata biografia di questo eroico personaggio.
Professor D’Orsi, perché proprio adesso una biografia di Leone Ginzburg, figura fin troppo trascurata nella storia dell’antifascismo italiano?
«Confesso che non volevo lasciar passare l’anniversario della sua nascita (1909): il libro in effetti è uscito nell’autunno del 2019, dunque a 110 anni dalla nascita. Ma in realtà questo libro lo avevo dentro, per così dire, da molti anni, da decenni, da quando cominciai a occuparmi della cultura a Torino tra le due guerre (come si intitola il libro che apparve vent’anni or sono, da Einaudi, e che suscitò uno straordinario dibattito). Analizzando quel periodo, anni di ricchissima produzione culturale, anni di semina di eventi accaduti successivamente, mi sono imbattuto in alcuni personaggi eccezionali, primo fra tutto Antonio Gramsci, che è diventato il mio autore di riferimento, e al quale ho dedicato la mia precedente opera (Gramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli), Piero Gobetti, e Leone Ginzburg. Quest’ultimo eccitava la mia curiosità, non soltanto per l’eccezionalità del suo profilo intellettuale e umano, ma anche perché su di lui non c’era stata un’attenzione editoriale e storiografica. D’altra parte, il mio maestro, Norberto Bobbio, che di Leone fu compagno di scuola, e amico intimo, per molti anni, mi sollecitava a scrivere su Leone: il mio libro ha questo incipit: “Tu devi scrivere la biografia di Leone!”, mi incitava, e forse ammoniva, il mio maestro...”.
In sintesi, ho scritto il libro per assolvere un doppio debito: personale, come allievo verso il maestro, e collettivo, come studioso, e come intellettuale antifascista e democratico, verso lo stesso Ginzburg, quasi a chiedergli scusa se per troppo tempo non ci eravamo occupati di lui».
Cerchiamo di inquadrare meglio il personaggio, le origini russe, l’identità ebraica, l’amore profondo per la patria italiana: come si coniugano questi tre aspetti in Leone Ginzburg?
«Questo dato costituisce già di per sé una ragione di interesse del personaggio. Un russo della periferia russa, la Crimea, nato in una città colta, ricca, cosmopolitica, Odessa, con una fortissima presenza ebraica, il quale tra caso e necessità viene a trovarsi in Italia, e alla fine, diventa italiano per scelta, al termine di un lungo e faticoso percorso. È un ebreo, che ha respirato le tradizioni e la cultura israelitica, ma non vi è attaccato, essendo un laico, cosmopolita moderno; ed è estraneo al movimento e alla cultura del sionismo. È un russo che ama quella terra, e la sua storia, e si batte culturalmente per far accettare l’idea che la Russia è parte integrante dell’Europa, e vuole far conoscere lo straordinario patrimonio della storia e della cultura, della letteratura in primo luogo, della Russia agli italiani. Nello stesso tempo è un russo che vuole farsi italiano. E quando gli verrà tolta la cittadinanza, faticosamente acquisita, ne soffrirà enormemente. In definitiva queste tre componenti, che hanno pesi diversi, riescono ad amalgamarsi nella sua personalità, rendendola fascinosamente originale».
Quali sono gli snodi cruciali dell’eroica parabola esistenziale di questo coraggioso «intellettuale antifascista»?
«Nell’ordine, sono l’incontro con Carlo Rosselli a Parigi, nel 1932, e l’immediato inizio della sua militanza nella cospirazione di “Giustizia e Libertà”; il rifiuto di prestare giuramento al regime, come libero docente, all’inizio del 1934; l’arresto, nel marzo di quello stesso anno, con la conseguente condanna e la prigionia a Civitavecchia fino al 1936; l’emanazione delle leggi razziali, nell’autunno del 1938; il confino in Abruzzo nell’estate del 1940, e la perdita della cittadinanza italiana; il passaggio in clandestinità a Roma, alla fine del luglio 1943, con la militanza antifascista nella cellula romana del Partito d’Azione. È un crescendo di azione e di pensiero, che definiscono un profilo di intellettuale che sa tenere insieme politica e cultura, con la capacità di apertura sul piano culturale e di intransigenza su quello politico, che nel drammatico sviluppo degli eventi finirà necessariamente per prevalere».
In che modo Ginzburg contribuì alla fondazione della casa editrice Einaudi e quali sono i suoi più importanti meriti in campo culturale per quanto la violenza fascista gli permise di esprimersi?
«La fondazione dell’Einaudi, nel novembre 1933, nasce dall’amicizia di Leone con Giulio, figlio del senatore Luigi (futuro presidente della Repubblica) e con Cesare Pavese: sono il magnifico trio che dà vita all’impresa che sceglie lo Struzzo con il chiodo nel becco come suo logo. Alle spalle c’è il Liceo D’Azeglio, e c’è la rivista La Cultura, ma più in generale c’è una koinè culturale e amicale di giovani intellettuali borghesi torinesi, che hanno passioni e interessi diversi, ma sono uniti dalla volontà di “fare”. Sono ostili a ogni forma di provincialismo e vogliono aprire il più possibile la cultura italiana allo scambio con altre culture, dall’America alla Russia, e vogliono anche procedere seguendo piste diverse sul piano delle discipline. Hanno tesaurizzato l’esperienza editoriale di Gobetti, ma anche di altre piccole e coraggiose editrici, come Slavia, i Fratelli Ribet, Frassinelli. Il merito maggiore di Ginzburg, personalmente, al di là della Einaudi, in cui peraltro egli impone uno stile di lavoro che diverrà idealtipico nell’editoria di cultura del Novecento, è di aver favorito una conoscenza diretta della letteratura russa in Italia».
Sulla sua tragica fine aleggia ancora una sorta di misterioso riserbo che ha contribuito a farne dimenticare troppo in fretta la figura e l’eredità intellettuale: che idea si è fatto in proposito?
«“Leone è morto senza dire la sua ultima parola”, scrisse Bobbio in un testo di grande passione emotiva, dove traspare quasi il disagio di parlare del compagno migliore di tutti, lui compreso; il giovane così geniale, e così rigoroso, morto così giovane. Leone muore probabilmente di fatica, di stress emotivo, di malattie non curate bene; ma muore, io credo, comunque, innanzi tutto per effetto degli interrogatori violenti fatti dalla Gestapo su di lui prigioniero nel carcere romano, di Regina Coeli. Non abbiamo la certezza della causa effettuale della morte, ma io credo che si possa serenamente attribuire al fascismo la morte di Leone Ginzburg. Il fatto è che però egli non è morto in modo “glorioso”, non è stato fucilato, non lo hanno impiccato, non è deceduto in uno scontro a fuoco e neppure saltando su di una mina. Muore, in silenzio, in una cella di un carcere. Non è stata una fine “eroica”, la sua, eppure egli va considerato a tutti gli effetti un martire dell’antifascismo».
Per concludere, quanto ha ancora da insegnarci la testimonianza di Leone Ginzburg e in che modo può servire oggi l’arma non violenta della cultura per contrastare efficacemente i rigurgiti antidemocratici nell’Europa del nostro tempo?
«L’insegnamento di Leone a mio avviso sta nella coerenza morale e nel rigore intellettuale, due armi che se ben maneggiate possono essere più preziose delle pistole, delle bombe e dei fucili. Del resto Leone non ha mai imbracciato un’arma. Non ha sparato un colpo. Ha condotto la sua lotta, ora a viso aperto, ora in clandestinità, con una forza eccezionale, una totale intransigenza, dando un esempio altissimo, tanto a chi vuole lavorare nell’ambito culturale, quanto a chi intende fare politica. Nel suo esempio c’è anche, sottesa, una modalità di agire e pensare, in cultura come in politica, estranea all’esibizionismo, anzi improntata a una enorme generosità. Leone, da intellettuale (tradurre, scoprire autori nuovi o far conoscere autori ignoti, fare lavoro editoriale...), così come da militante politico (sempre da gregario, pur essendo un “capo naturale”), totalmente disponibile a fare ogni genere di attività anche le più umili, ha lavorato sempre per gli altri. Ecco, anche in questa sua generosità, e direi umiltà, c’è un seme che purtroppo non ha fruttificato, ma che spero che anche un po’ grazie al mio libro, si possa riprendere e far germogliare. Il fascismo nasce dall’ignoranza, si nutre di prepotenza, e sopraffazione. Ginzburg ha realizzato con la sua stessa breve esistenza, un’opera antifascista».
L’incidente di Ponte Tresa
Un drammatico episodio lega in qualche modo la vita di Leone Ginzburg al nostro territorio. La fine della sua libertà, il primo arresto, e l’inizio della persecuzione fascista avviene infatti in seguito all’incidente di Ponte Tresa dove l’11 marzo 1934 vengono catturati dai doganieri italiani al posto di frontiera con la Svizzera Sion Segre Amar e Mario Levi. Reduci da una trasferta a Lugano sull’automobile dei due appartenenti a Giustizia e Libertà vengono trovati materiali compromettenti. Durante l’arresto, Mario Levi (fratello di Natalia futura moglie di Ginzburg) tuffandosi nel fiume riesce a farsi trarre in salvo dai militari elvetici. Segre invece non ce la fa. Dal suo interrogatorio le autorità fasciste trarranno le informazioni per catturare (tra gli altri) Ginzburg la cui odissea finirà soltanto con la tragica morte a Roma dieci anni dopo.