«L’estetica patinata non fa bene all’horror»

«La mia scuola è stata il set», dice Lamberto Bava, che in occasione del 78. Locarno Film Festival si intrattiene con il pubblico e riceve un Pardo speciale alla carriera. Una carriera iniziata grazie al padre Mario, di cui è stato più volte collaboratore, anche in Reazione a catena (1971) presentato in versione restaurata nella sezione Histoire(s) du Cinéma. Altra collaborazione tra i due fu Shock, anche se il titolo doveva essere un altro: «Si chiamava Al 32 di via dell’Orologio fa sempre freddo, fu la distribuzione a imporre il titolo che conosciamo». Accettando il riconoscimento, Bava afferma che non è solo per lui, ma «per tutta una generazione di registi», aggiungendo poi una citazione di H. P. Lovecraft: «Sono uno di quelli di prima».
Il suo è un percorso tra cinema e televisione, a cui negli ultimi anni si è aggiunta la prosa, con una raccolta di racconti nella quale fa capolino anche quello che potrebbe essere lo spunto per un eventuale Demoni 3. Eh sì, perché ancora oggi, a 40 anni dall’uscita del capostipite, il dittico sulle creature fameliche che escono dagli schermi (cinematografico nel primo film, televisivo nel secondo, videoludico/virtuale nel racconto) rimane amatissimo nel mondo intero: «Ha fan ovunque, mi chiamano in giro per il mondo per presentarlo». Prima di passare alla regia in proprio, è stato l’assistente di illustri colleghi quali Ruggero Deodato e Dario Argento. Del primo ricorda soprattutto il set caotico di Ultimo mondo cannibale, dove Bava si ritrovò a dover maneggiare due serpenti per una scena e, dopo otto ciak, fu morso.
Con Argento, invece, il sodalizio perfetto durante le riprese di Inferno - «Ogni tanto sogno ancora di essere su quel set, perché fu uno degli happening più importanti per me» - con le inquadrature in cui è proprio lui a interpretare la mano dell’assassino. «Per le cose cattivelle, Dario guardava me - dice divertito Bava - L’attore ingaggiato per la parte non ce la faceva, non aveva la tecnica necessaria, che io invece avevo imparato sui set di mio padre. E così, dopo il terzo ciak, Dario mi mise addosso il costume. Anche nella scena con Ania Pieroni, la mano nera è la mia».
Nei suoi film è ricorrente la cecità. «Sì, è un classico nel cinema. Anche i bambini, un elemento che ho ereditato da mio padre. E molti dei miei film parlano di cinema». Che rapporto ha con il cinema di genere oggi? Lo vede in sala? gli chiediamo. «Io vado ancora al cinema, non sto a casa. E cerco di vedere come prima cosa i film fantastici e horror, ma oggi non si fa quasi più in tempo, escono e poi una settimana dopo sono già smontati».
Ci sono molto sedicenti eredi di quel cinema italiano degli anni ’70 e ’80, ma spesso i film nuovi hanno un’estetica troppo patinata. «L’effetto speciale computerizzato non va a braccetto con la paura», riflette Bava, precisando poi che tra i film recenti che ha apprezzato c’è The Well di Federico Zampaglione - «Mi sono piaciuti i mostri perché erano artigianali» - ma anche la saga americana di Terrifier, in cui un pagliaccio psicopatico miete vittime in modo creativo e senza andare incontro alle censure che più volte hanno colpito gli horror in passato (Demoni, all’epoca vietato ai minori di 18 anni in Italia, dovette essere tagliato per essere trasmesso in TV). E un eventuale ritorno sul set? Difficile, per sopraggiunte ragioni anagrafiche, motivo per cui privilegia la scrittura. «Ma mai dire no».