Andrea Bajani: «Ora tocca ai maschi rifiutare le scorie dell’eredità patriarcale»

«Ringrazio quanti hanno creduto in me e nel mio lavoro e mi hanno sostenuto, a cominciare dalla mia casa editrice e soprattutto sono felice per aver potuto raccontare la storia di una madre sottomessa e un figlio che si ribella al patriarcato.» Parla a raffica Andrea Bajani vincitore della LXXIX edizione del premio Strega con il suo tredicesimo romanzo, L’anniversario (Feltrinelli). Un po’ è una vittoria annunciata perché Bajani era considerato il favorito di questa kermesse letteraria. E tanto tuonò, che alla fine l’esito fu quello che si sperava e il cinquantenne Andrea Bajani alza la mitica bottiglia di liquore che dà il nome al premio e ne sorseggia un tantino. Dopo, lo abbiamo intervistato.
Il disfacimento dei ruoli che sempre più speso si verifica nella famiglia tradizionale, è una rovina o una liberazione?
«Io credo che la famiglia sia ancora il metodo - o l’organismo sociale - più diffuso che l’essere umano si è inventato per proteggersi. Questo mi pare il punto. Come organismo sociale, deve trovare, modificare, negoziare la sua forma di continuo. Con in più la complicazione del sangue, che rende il tutto più incandescente, e però forse è un collante naturale per l’istinto di sopravvivenza. Ma in questo organismo vivente, fatto di pulsioni e di leggi, guai a non rivedere di continuo i ruoli. Mi interessa la metamorfosi dei ruoli, non il disfacimento. Il modello patriarcale ha mostrato la corda, e bisogna fare lo sforzo di trovare tutti insieme un’alternativa. Senza conservatorismi o inutili picconamenti».
Si possono abbandonare i propri genitori?
«Nel romanzo c’è un passaggio preciso in cui chi racconta passa dal verbo “abbandonare” al verbo “sottrarsi” in poche righe. La colpa, con la vergogna che le è connessa, dice: qualsiasi cosa succeda nella tua casa, violenza, paura, abusi, tu dovrai restare, perché quello è il regno del sangue. A quella chi racconta oppone un semplice diritto: se non ti senti al sicuro, proteggiti. E se non ti senti al sicuro in una famiglia, hai il diritto di sottrarti».
Molto spesso i figli sono simili ai padri: combattersi è una specie di guerra civile?
«Mi piace l’idea di combattere per, non quella di combattere contro. La militanza per una società migliore, per un’umanità più complessa, empatica, consapevole. Quale che sia il portato dei geni, delle somiglianze, delle emulazioni, poi c’è sempre la ragione, l’etica, l’idea di futuro, che può orientare i comportamenti. Lasciare spazio all’animale, alla furia distruttiva, non può che portare rovina. Lo leggiamo sui giornali tutti i giorni. Nelle famiglie, sul piano geopolitico, in strada».
Il disamore, spesso generato dalle difficoltà, favorisce liti e separazioni?
«È una domanda molto interessante a cui però non è così semplice rispondere. Credo però che da qualche parte vada messo il rispetto, che è la pietra angolare di ogni relazione. Amore o non amore, che è una parola che a furia di essere ripetuta è difficile capire cosa significhi. La letteratura - perché è solo questo il piano su cui posso esprimere opinioni che non siano corrive - offre l’esempio della complessità. Se c’è un movimento specifico che avviene scrivendo è quello di disfarsi di semplificazioni, demagogie e articolare una lingua nuova, libera, che giocoforza porterà pensieri nuovi. E rispetto per gli altri esseri umani».
Cosa accentua ancor di più nella madre la paura nei confronti del marito?
«Il suo isolamento, soprattutto. Il tagliarla fuori da ogni relazione, o quasi, con il mondo esterno. È tipico di ogni sistema totalitario, costruire un universo interno, attraverso la manipolazione e una sorta di propaganda funzionale a preservarsi. Lo fanno i sistemi totalitari e nel libro lo fa il marito, inizialmente forse per provare a salvarsi lui stesso, poi per paura di perdere il potere. La letteratura ha questa possibilità di costruire analogie, di creare somiglianze tra organismi molto diversi».
La madre in qualche modo ha il dono dell’invincibilità acquisita con la sopportazione?
«Non so se abbia il dono dell’invincibilità. Di certo ha abitato l’invisibilità - che le è stata assegnata dal marito - per la maggior parte della propria vita coniugata. È un personaggio complesso, misterioso, che in qualche misura vince la sua partita con il marito, non temendolo come lui in qualche misura vorrebbe, ma perde quella con la vita, non potendo far altro che stare accanto a lui in un disgraziato atto d’amore. Il romanzo in fondo cerca anche di indagare quel mistero».
Come si sfugge all'eredità patriarcale?
«Il narratore , ne L’anniversario, lo fa rifiutando l’eredità patriarcale, e facendolo da maschio. Era molto importante per me che la voce narrante fosse un maschio. Dopo aver rifiutato quell’eredità, ed essersi consegnato a un modo di essere maschio tutto da inventare nel rispetto, il secondo movimento che fa è quello di rimettere al centro dalla scena la madre. Era stata silenziata, invisibilizzata, e lui la rimette al centro della scena. Se la restituisce e la restituisce. È lei l’altra grande protagonista del romanzo».