L'intervista

«Camilleri il contastorie, e la lingua della memoria»

Il 6 settembre di 100 anni fa nasceva Andrea Camilleri, «lo scrittore italiano contemporaneo più letto, amato e discusso al mondo», secondo Mauro Novelli – Luca Crovi, autore di una biografia dello scrittore siciliano uscita pochi giorni fa, tratteggia la figura e la personalità del creatore del commissario Salvo Montalbano
©Vandeville Eric/ABACA (REUTERS)
Dario Campione
03.09.2025 06:00

Il 6 settembre di 100 anni fa nasceva Andrea Camilleri, «lo scrittore italiano contemporaneo più letto, amato e discusso al mondo» ha detto Mauro Novelli, ordinario di Letteratura italiana contemporanea alla Statale di Milano. In questa conversazione con il CdT, Luca Crovi - autore di una biografia dello scrittore siciliano uscita pochi giorni fa per i tipi di Salani - tratteggia la figura e la personalità del creatore del commissario Salvo Montalbano.

È probabile che Camilleri sia stato, in Ticino, l’autore più venduto degli ultimi tre decenni. Forse, però, pochi ticinesi sanno che gli esordi letterari del maestro empedoclino sconfinano proprio in questo lembo di terra.
«È così. Il primo concorso internazionale che lo riconobbe come autore fu il Premio Libera Stampa 1948-1949, al quale Camilleri partecipò con il poemetto Due voci per un addio. La giuria del Premio era composta da critici di peso - Gianfranco Contini, Carlo Bo e Giansiro Ferrara - e Camilleri finì assieme ad autori come Andrea Zanzotto e Pier Paolo Pasolini. Le poesie sono state la prima forma narrativa con cui Camilleri si è espresso in letteratura: cominciò a scriverle fin da bambino, dedicandole alla mamma; e sui quaderni di scuola dell’epoca si trovano questi primi manoscritti. Peraltro, a 25 anni, Camilleri era un poeta affermato, e pur non avendo pubblicato molto era considerato uno dei lirici che meglio raccontavano il periodo post-bellico».

Poi, arrivò il teatro.
«Sì. Nel 1949, quando entrò all’Accademia d’arte drammatica, il teatro - in qualche modo - ne dirottò l’esistenza, diventando la sua forma di espressione principale».

Infatti: tutti conoscono il giallista e il romanziere, ma in realtà Camilleri è stato molto a lungo un regista teatrale, poi un uomo di televisione e di radio. E soltanto sulla soglia dei 70 anni diventò uno scrittore a tempo pieno.
«Va detto, tuttavia, che Andrea Camilleri ha scritto sempre, per tutta la vita. Anche quando lavorava alla radio e in TV, dove adattava spesso i testi degli altri. Lui stesso racconta di aver imparato la tecnica del giallo quando, producendo per la RAI il Maigret di Georges Simenon, vide Diego Fabbri smontare e rimontare letteralmente i romanzi dello scrittore belga. Questa tecnica, fatta di capitoli scomposti e riassemblati, gli regalò la linearità e la concisione di scrittura che poi manterrà una volta diventato narratore».

Anche se la sua originalità risiede in una lingua unica, che costruì a partire dai ricordi d’infanzia.
«C’è un episodio importante. Nel 1967, il padre di Camilleri si ammala e lo scrittore decide di assisterlo. Nei giorni trascorsi con il genitore, gli parla del romanzo che ha in testa (Il corso delle cose, ndr), glielo racconta. E chiede al padre come scriverlo. La risposta è chiara: “Usa la stessa lingua con cui l’hai raccontato a me”. Ecco perché quella parlata diventa così decisiva. Anche se, per difenderla, subirà 10 anni di rifiuti da parte degli editori. E tuttavia, oggi possiamo dirlo, il “vigatese” è diventato una lingua di scambio con i lettori; questa reinvenzione del siciliano, che apparentemente sembrava uno scoglio insuperabile, a un certo punto si trasforma in un patto con il suo pubblico. È il gioco che gli permette di entrare in comunicazione, grazie a sonorità e semantiche originalissime».

Si può dire che Camilleri sia stato, in realtà, un grande sperimentatore? Ha frequentato tutti i linguaggi possibili: dalla narrativa alla poesia, dalla radio alla TV, dal teatro al giornalismo. Forse, soltanto Pasolini è stato come lui: scrittore, cineasta, poeta, saggista, drammaturgo.
«È vero, sono molto simili. Infatti, l’incontro tra Pasolini e Camilleri è molto interessante. Avrebbero potuto e dovuto lavorare insieme, ma purtroppo Pasolini morì prima che potessero collaborare. Fu Laura Betti a farli conoscere e a raccontare che Pasolini, la prima volta che parlò con Camilleri, quasi gli diede una sorta di strattone. Lo “accusava” di volere a teatro tutti attori “perfettini”, che parlassero in maniera giusta, quando lui - Pasolini - li preferiva invece sgangherati, brutti ma naturali. In realtà, Camilleri era del suo stesso avviso».

Leggendo il suo libro emerge come Camilleri fosse soprattutto uno straordinario narratore orale, un contastorie.
«Certo. Tutte le storie che lui ha scritto, le ha prima raccontate a voce. Questo gli permetteva di vedere le emozioni delle persone che ascoltavano». Un’oralità che, alla fine della vita, è stato costretto a recuperare. Era diventato cieco, ma non si è mai stancato di narrare, e i libri li dettava alla sua collaboratrice. «Una cosa impressionante. Camilleri aveva una memoria e una capacità di raccontare straordinarie. E recitava le sue storie come se fosse su un palcoscenico».

Un dato interessante della biografia di Camilleri, così come emerge anche dalle lettere alla famiglia, è la caparbietà. Camilleri scommise su se stesso, sul futuro di artista e di narratore. Anche quando le circostanze sembravano voltargli le spalle.
«Le lettere alla famiglia, che per fortuna sono rimaste, raccontano un periodo abbastanza lungo e continuativo della vita di Camilleri e sono già una forma di scrittura perfetta, perché dentro ci sono il racconto letterario, l’episodio particolare, la citazione della poesia, la battuta umoristica, il dramma, la rabbia. Ci sono la fame patita a Roma all’inizio degli anni ’50, la frustrazione per non riuscire a trovare un’occupazione stabile, gli incontri con tutti i più importanti intellettuali italiani del secondo Novecento: pittori, scenografi, poeti, sceneggiatori, scrittori, editori. Camilleri visse da protagonista il periodo della rinascita del Paese».

Curiosamente, Camilleri visse da protagonista anche gli anni della rivoluzione tecnologica in RAI, sia alla radio sia in TV. E dire che non lo volevano per le sue idee politiche.
«Camilleri entrò in RAI per sostituire una collega in maternità e ci rimase fino alla pensione. Era la RAI di Ettore Bernabei, quella in cui, senza imbarazzi, si tentava di avvicinare al nuovo mezzo televisivo tutti gli intellettuali. Non era più l’azienda che lo aveva respinto dopo aver saputo della sua vicinanza al Partito Comunista. In quella stessa RAI, riuscì ad avviare una super collaborazione con Eduardo De Filippo. La cosa curiosa è che il grande drammaturgo napoletano accettò di lavorare con Camilleri solo perché era uno di famiglia: il suocero dello scrittore siciliano, infatti, era amico di Eduardo».

Chiudiamo, inevitabilmente, parlando di Salvo Montalbano. Nelle pagine dei romanzi del commissario vigatese risuona sicuramente l’eco di Sciascia e di Simenon, ma emergono anche richiami ad autori meno noti, come un altro siciliano legato al Ticino, Franco Enna, il creatore del commissario Fefé Sartori.
«È stato lo stesso Camilleri a confessare di avere attinto, per costruire la figura di Montalbano, alla tradizione italiana che più lo aveva colpito: Augusto De Angelis, Giorgio Scerbanenco e Leonardo Sciascia. Autori che utilizza, all’inizio, come idea di partenza per ciò che potrebbe fare. Anche il Carlo Emilio Gadda del Pasticciaccio è molto importante per lui, soprattutto per il rapporto con la struttura linguistica del racconto. Una cosa è sicuramente vera: Camilleri conosceva alla perfezione tutti loro. Molti li aveva incontrati di persona. Soprattutto, però, li aveva letti. E annotati. Per scrivere la biografia dello scrittore siciliano ho avuto accesso alla sua biblioteca. Camilleri era un lettore vorace, divorava un libro al giorno. Ho visto le note e i commenti a margine dei libri. È facile entrare nel suo mondo letterario. Ha lasciato traccia di tutto».