Saggi

La memoria della Shoah e il rifiuto dei nuovi genocidi

In un volume di straordinario valore civile, Gabriele Nissim, ideatore della Fondazione Gariwo che si occupa della ricerca di figure esemplari dei «Giusti», invoca un’alleanza fra gli esseri umani per prevenire le atrocità di massa
Il raggelante binario di Auschwitz, via di accesso all’orrore per oltre un milione di persone.
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
30.08.2022 06:00

Dal 2018 anche Lugano, grazie all’iniziativa e all’impegno della Fondazione Federica Spitzer, è entrata nella rete dei «Giardini dei Giusti», spazi urbani sempre più frequenti nelle città d’Europa il cui obiettivo è quello di valorizzare figure esemplari che, agendo secondo coscienza e consapevolezza, sembrano indicarci che una scelta è sempre possibile. Anche davanti agli scenari più disperati. Un modello ispirato allo Yad Vashem, il Memoriale della Shoah di Gerusalemme che alla ricostruzione dettagliata dei crimini del nazifascismo affianca da sempre una sorta di Tribunale del Bene incaricato di attribuire il titolo di «Giusto» a chi si spese per salvare anche solo una vita umana da retate e annientamento. Ma con l’impegno ad andare oltre il solo contesto, per quanto riconosciuto come paradigmatico, della Shoah. Dal Ruanda a Srebrenica, dall’Armenia alle nuove vittime del fanatismo religioso: un’opera diffusa che ha il suo baricentro nel Giardino dei Giusti di Milano sorto nel 2003 sul Monte Stella. E soprattutto nello sforzo anche intellettuale di Gabriele Nissim, saggista, giornalista e fondatore dell’associazione Gariwo sotto la cui egida tutto è nato e ha preso una certa piega: porta la sua firma, a coronamento di un lavoro di molti anni, l’adozione a livello europeo della Giornata dei Giusti che si celebra ogni 6 marzo nelle più alte sedi istituzionali e in tutti i giardini della rete.

Nissim ha scritto libri importanti e impegnati. L’ultimo, Auschwitz non finisce mai, edito da Rizzoli, è di quelli che lasciano il segno. Il presidente di Gariwo - che è ebreo, un’identità richiamata con fierezza - si pone in particolare un interrogativo. E cioè se la difesa del concetto di «unicità della Shoah» ricorrente quando ci si sofferma su quegli orrori non sia in realtà una trappola. Il rischio, fa capire senza troppi giri di parole, è di una separazione del destino ebraico da quello del resto dell’umanità. E quindi di una perdita di senso rispetto alla più genuina missione del ricordo con solide basi di conoscenza: vivificare studio e testimonianza, abbattere pregiudizi, esortare all’azione. In ogni contesto, senza troppo sottilizzare. Essere ebrei, incalza Nissim, non significa «costruire un mondo a parte» ma «gridare ad alta voce quando l’umanità viene minacciata». Da qui il senso di fastidio che dice di provare «quando si cerca di classificare i genocidi secondo un ordine gerarchico». L’idea è che tutto ciò sia non solo sbagliato ma anche infruttuoso nel contrasto stesso all’antisemitismo di cui la Memoria è il fondamento. «Non solo è più difficile che il non ebreo riconosca la specificità della storia ebraica come propria, ma diventa più complicato tessere un percorso di alleanze e comprensione reciproca tra ebrei e non ebrei», osserva in seguito. Guai quindi a disgiungere il racconto della Shoah «dagli altri mali». Chi lo enuncia «diventa meno credibile perché non dimostra empatia per altre tragedie».

Il ruolo di Raphael Lemkin

Il libro, oltre ad essere molto documentato, è anche ben scritto. Nella sua prima parte espone come si è alimentata la Memoria dei campi di sterminio dal dopoguerra ad oggi, attingendo anche dal pensiero di grandi menti che hanno dato il loro apporto a una costruzione ancora in fieri (tra gli altri tre giganti del Novecento toccati personalmente dal dramma come Primo Levi, Elie Wiesel e Simone Veil).

Un viaggio ricco anche di incontri ed esperienze personali volte a far passare la sua visione, allargata rispetto all’impostazione dello Yad Vashem, di «Giusto». La seconda omaggia invece la visione che fu propria di Raphael Lemkin, indomito giurista ebreo polacco che nel 1944 coniò il termine genocidio («Un piano coordinato di differenti azioni mirante alla distruzione dei fondamenti essenziali della vita di gruppi nazionali, con l’intento di annientarli»). I forni di Auschwitz erano ancora in funzione quando questo immenso personaggio, già vicino alle sofferenze del popolo armeno massacrato dagli ottomani a inizio secolo, offrì all’umanità una sua chiave interpretativa del Male. Un Male che può ripetersi. E che anzi, ricorda Nissim, già si è ripetuto più e più volte. Con modalità d’esecuzione differenti rispetto alla Shoah. Ma uguali, esorta il presidente di Gariwo, devono essere il nostro sdegno e il nostro rifiuto dell’indifferenza. Perché, ci ricorda Nissim, non esiste un male soprannaturale: l’orrore nasce da una precisa e deliberata volontà e da decisioni concrete, che conducono gli esseri umani a sterminare altri esseri umani, per interesse, pregiudizio, ignoranza o accecamento ideologico.

Recensendo il saggio su Pagine Ebraiche, il mensile dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, la storica Anna Foa si è chiesta: «Ogni genocidio è unico, ha delle caratteristiche sue proprie e un filo che lo lega agli altri genocidi, alla realizzazione dell’annientamento di intere collettività. E in questo la Shoah ha delle caratteristiche di specificità. Ma uno spartiacque volto a cosa? A consolidare l’ebraismo dei superstiti, a edificare lo Stato di Israele, a onorare la memoria dei morti? Oppure a insegnare al mondo intero i disastri del razzismo, di ogni razzismo, a riconoscere i prodromi del baratro, a evitarlo?». È questo in fondo, suggerisce la studiosa, tra le massime esperte di Shoah in Italia, «che importa davvero».