Narrativa

L’albero della speranza

Nel suo nuovo romanzo ambientato nell’Alto Milanese, «Il pioppo del Sempione», Giuseppe Lupo intreccia storie di migranti e ricordi personali in una vicenda di integrazione, memoria e identità perdute da ricostruire
Claude Monet, Champ de Coquelicots à Giverny (1890), olio su tela, cm.60x100, Museum of Fine Arts, Boston. © ProLitteris
Fabio Pagliccia
06.04.2021 06:00

Nell’ultimo romanzo, Il pioppo del Sempione (Aboca ed.), Giuseppe Lupo, una delle voci più interessanti della narrativa contemporanea, conferma i pregi indiscussi della sua scrittura un po’ trasognata, ma nel contempo realistica, capace di evocare frammenti del vissuto dell’uomo. Un giovane docente di italiano tiene lezione, in una scuola serale di Legnano, a un gruppo di immigrati di diversa provenienza. Questi è la voce narrante e anche l’alter ego dell’autore, che per dieci anni ha rivestito un simile incarico, prima di transitare all’Università. Il tema dell’immigrazione non è nuovo nella narrativa di Lupo, essendo stato già al centro del romanzo Gli anni del nostro incanto. Ora, però, l’autore affronta la questione, ben più spinosa e attuale, dell’immigrazione extracomunitaria; e lo fa, focalizzando lo sguardo su una classe multietnica, che racchiude un campionario di esistenze periferiche, marginali, neglette, colpite dalle vicissitudini della vita, in fuga da miseria e persecuzioni.

Lezioni di vita

Queste esistenze, sradicate dal proprio milieu, per le quali la scuola rappresenterebbe un’occasione concreta di riscatto, appaiono bisognose di apprendere la lingua del Paese che le ospita, nella speranza di riuscire, prima o poi, a integrarsi, e ottenere l’agognato permesso di soggiorno. Il giovane professore, sceso dalla cattedra, dialoga a tu per tu con questa umanità, alla quale non impartisce nozioni grammaticali né disamine letterarie, ma dispensa più prosaicamente insegnamenti di vita. Tra gli allievi figurano un ingegnere iracheno con la famiglia al seguito; un padre e un figlio sbarcati dalla Costa d’Avorio che parlano francese; il marocchino Mohammed, indole taciturna e imperturbabile; un albanese approdato fortunosamente sulle coste della Puglia. A distinguersi è, però, un alunno clandestino e atipico, di età avanzata, soprannominato «nonno Paplush», un ex operaio tessile ridotto in solitudine, proprio come il secolare pioppo della corte del Villoresi, lungo la statale del Sempione (crocevia di veicoli, popoli e culture), che richiama alla memoria il bel romanzo del Vittorini Il Sempione strizza l’occhio al Frejus. Con questo albero il protagonista spartisce da sempre il nome (Paplush è voce dialettale che significa «pioppo»), l’umile esistenza e forse qualche segreto inconfessato: «Quando racconta [...] è imponente anche lui come un albero, alto e asciutto, con la voce eroica e due occhi taglienti». Il pioppo, che cresce lungo le rogge e i canali della Lombardia e fiorisce in primavera coi soffioni che si propagano per l’aria, è attestato in scene metamorfiche del mito classico e ha fornito ispirazione a grandi narratori e poeti del Novecento, da Mario Rigoni Stern ad Andrea Zanzotto. Anello di congiunzione fra terra e cielo, come suggerisce la linea ascensionale della sua silhouette, esso appare nel romanzo di Lupo una creatura umanizzata, dai contorni magici, fiabeschi. Non a caso l’editore Aboca ha inserito questo lavoro insieme con altri romanzi di carattere arboreo, all’interno della collana «Il bosco degli scrittori», in cui figurano Il bosco del confine di Federica Manzon, il Canto degli alberi di Antonio Moresco, Il fico di Betania di Alberto Garlini, L’olmo grande di Gian Mario Villalta. Il fine è quello di stimolare la riflessione intorno alla necessità di recuperare un rapporto autentico e vitale con la natura; rapporto che, purtroppo, la civiltà metropolitana e industriale, consacrata alla dissennata logica del profitto, ha perduto inesorabilmente.

Il vecchio aedo

Paplush incarna il vecchio aedo, il grande saggio, l’anima della terra di adozione, che è divenuta a pieno titolo la sua terra, giacché gli ha dato lavoro e mezzi di sostentamento, almeno finché la fabbrica, delocalizzando la produzione, non ha chiuso i battenti, lasciando sul lastrico un’intera schiera di operai. Il vecchio Paplush è una figura chiave del romanzo, il trade-union fra le generazioni, il testimone fedele del tempo passato che si salda al presente, un modello di riferimento per i compagni, che pendono dalle sue labbra, quando egli racconta aneddoti, ora divertenti ora commossi, in cui il pioppo costituisce l’immancabile collante. Si rievocano, così, le partite a carte con l’inseparabile amico Ottavio nei pressi del capannone dismesso; l’idillio sfortunato con la giovane locandiera Rossana, ragazza madre che sognava di fare la ballerina; la volta in cui Fausto Coppi fu sorpreso fare pipì su un muretto durante una gara ciclistica. Ma sono rievocati anche eventi collettivi e di portata internazionale, come gli attentati terroristici dell’Italia degli anni Settanta e la seconda guerra del Golfo, che Bush figlio dichiarò all’Iraq. Insomma, come attorno a un focolare domestico, gli allievi di questa inconsueta classe rivivono il passato attraverso i ricordi, «non per esibire la propria vita, ma per sentirsi vicini uno all’altro, isole dentro un arcipelago». Quelle storie, che parlano di noi, divengono archetipi universali, capaci di unire e affratellare gli uomini, al di là delle loro differenze e divisioni.