Poesia

Le rassicuranti inquietudini tra le pagine di Fabio Pusterla

L'uscita della nuova raccolta di liriche del letterato ticinese invita alla riflessione intima sulle angosce del presente senza cedere alla rassegnazione ma ancorandoci alla speranza di luce di un orizzonte collettivo e di sensibilità condivise
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Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
23.12.2022 06:00

Basta un neologismo. Se la poesia definisce, o dovrebbe definire, il mondo come lo sentiamo, senza mediazioni o costruzioni intellettuali, una parola, anche se appena inventata, può bastare per descrivere il nostro tempo. Questo nostro tempo di paura e di speranza. Quella parola è «tremalume» come si intitola, così dal nulla di una sensazione, la nuova raccolta poetica di Fabio Pusterla, in libreria quattro anni dopo il magnifico Cenere, o terra. Un neologismo, quasi magico «in cui il tremore, la minaccia e la preoccupazione - spiega il poeta e intellettuale ticinese - non eliminano affatto la piccola sopravvivenza di un lume, di una minima luce a cui affidarsi». Un cammino poetico paziente, ostinato, nelle regioni del disastro, del degrado, tra i mostri della notte sui sentieri, nella luce migrante; il cammino di chi non ha scelto, ma non ha rinunciato, complice un silenzio che nel frastuono dei sobborghi «vive ai margini e si cela». Lo sguardo è a larghissima gittata, abbraccia «pochi vivi e molti morti», l’ultima aborigena della Tasmania, i macachi creati in un laboratorio dell’Oregon. Ed esalta la consueta sperimentazione linguistica pusterliana che qui introduce anche elementi nuovi rivisitando se stesso e aggiornando i propri equilibri sotto il profilo linguistico e della ricerca della parola. Lo stile forse non muta ma di certo l’autore si sente paradossalmente più libero nella scrittura: «libero di sperimentare modi e forme assai diversi tra di loro, tanto nei ritmi quanto nell’uso delle immagini». Così tra «falceluna» e «rivamare», tra «cupocielo» e «dolcepiuma», la parola si fa navicella, che (fluctuat nec mergitur, diceva qualcuno a Lutezia) nei tempestosi gorghi del dolore pubblico e privato si aggrappa a una speranza intima e sommessa capace di proiettarsi nel cosmo e nei millenni nutrendosi di memoria e vastità. Lo abbiamo già scritto e dobbiamo ripeterci qui, vagando insieme al nibbio sull’Aareschlucht o tra le miserie di Lugangeles, tornando col pensiero a Zanzotto e a Erasmo da Rotterdam, oppure omaggiando l’amato Jaccottet, o anche compiangendo la sorte della tasmaniana Truganini, Pusterla disegna una speranza tra linguaggio e passione, tra consapevolezza e ricerca, per scoprire o riscoprire, l’inesausata capacità di penetrare il reale della propria esperienza letteraria; con la straordinaria abilità di trasformare i discorsi, le analisi e le percezioni legate al suo io a quelli generali che finiscono, quasi per magica sensibilità, per concernere il nostro noi. Anche se, come è stato opportunamente notato, con Tremalume, Pusterla apre una fase nuova della sua inesausta ricerca, almeno sotto il profilo formale e delle proporzioni espressive. Certamente, non di una cesura netta si tratta e di alcune di queste evoluzioni, riguardanti l’aspetto più propriamente formale e metrico, qualche sentore lo avevamo già percepito. C’è il desiderio di una sperimentazione maggiore con la lingua, anche autoimponendosi delle regole e delle forme entro cui muoversi, nella scia di un’aderenza più profonda e partecipata proprio a certe soluzioni zanzottiane. Le ombre e le luci, le catastrofi avvenenti e quelle avvenute, le fughe tentate e quelle riuscite, le speranze naufragate e quelle cui ancora aggrapparsi, Pusterla riesce comunque a guardare «avanti e altrove» senza dimenticare che siamo segni di passaggio cui «va veloce la vita e va lenta/per chi misura il tempo con il cuore». e che come l’ostinata acqua di Medel che, unica in queste lande scorre verso nord, pur non avendo scelto non ha rinunciato. Magistralmente strutturata in cinque sezioni tematiche (Le sbarre, Requiem, Cielo dei vinti, Lugangeles e Angelicanze) questa nuova raccolta poetica di Pusterla è anche un gioco a nascondino in versi fatto di rimandi, allusioni, citazioni e tributi dove la luce, si confonde col buio senza mai soccombere ed è per questo ancor più necessaria per attenuare nelle nostre anime il senso di assedio che da troppo tempo ci opprime ogni qualvolta cerchiamo un appiglio cui affidarci.

Il libro d’esordio

Le rassicuranti inquietudini pusterliane tornano anche nella raccolta d’esordio Concessione all’inverno. Poesie (1976 - 1984) che con felice tempismo Casagrande ripubblica in queste settimane insieme alla celebre prefazione di Maria Corti del 1985 che introdusse il docente di Mendrisio nell’olimpo della poesia italiana contemporanea. Paesaggi naturali sommersi, crolli imminenti, corrugamenti di rocce, stratificazioni antiche, correnti ignote, minacciosi vuoti, fanghiglie, anfratti, rifiuti, brume: in questa scenografia «preistorica» o di «catastrofe già avvenuta», il poeta va alla ricerca di minime sopravvivenze, tracce e luminescenze che diano senso a un presente avvilito e degradato. Pur essendo un libro d’esordio, Concessione all’inverno, che nell’86 vinse il Premio Montale, rivela una maturità di stile e di immaginazione che troverà conferma e sviluppo nelle successive raccolte. In particolare, grazie a una rigorosa fedeltà alla tradizione non solo italiana (fu Pier Vincenzo Mengaldo a iscrivere Pusterla nella couche dell’espressionismo europeo), elaborata con un timbro del tutto personale. A lettore non rimane che ripercorrere quelle sensazioni quasi fisiche delle parole con cui Pusterla si avviava «al mestiere di poeta», di poeta civile per essere precisi. Il tempo e le esperienze concrete da quei remoti anni Ottanta ci hanno dimostrato quanto ne avessimo bisogno.