Narrativa

Perché Dio non è di parte

l romanzo «Il mantello di Rut» di Paolo Rodari è un invito a riconoscere la nostra libertà e umanità come espressioni della volontà divina, stigmatizzando qualsiasi «dottrinocentrismo» che colpevolmente se ne dimentichi
Marco Alloni
Marco Alloni
08.07.2025 06:00

È nel conflitto tra un clero conservatore, sessuofobico e per molti versi oscurantista, e dall’altra parte un clero progressista, aperto e libertario, che si gioca il destino di padre Remo nel romanzo Il mantello di Rut di Paolo Rodari, edito da Feltrinelli. Un conflitto che trova i propri due estremi in padre Riccardo e padre Seán, che al novizio Remo impartiscono, prima l’uno e poi l’altro, due opposte educazioni al bene: nel primo un bene da intendere come perpetua mortificazione in vista della vita eterna e del Paradiso, nel secondo come espressione della propria più intima libertà.

Senonché in questo conflitto padre Remo finisce, oltreché per scegliere una concezione della vocazione ecclesiastica come pieno accoglimento della libertà, per comprendere un aspetto drammatico della storia cattolica: la sua connivenza, o il suo silenzio colpevole, quanto meno al livello delle più alte grarchie, nei confronti della persecuzione degli ebrei da parte dei nazi-fascisti durante gli anni 1938-1945 (non dimentichiamolo: con la complicità di non pochi delatori). Una connivenza che giocoforza produce una conclusione altrettanto drammatica: laddove la Chiesa opta per la conservazione e il tradizionalismo, laddove dimentica il messaggio essenziale di Cristo, la sua tolleranza nei confronti dell’umano in quanto tale a prescindere dal proprio credo e dalla propria condizione sociale – e soprattutto laddove persista, come fu il caso di Pio XII nel periodo delle deportazioni degli ebrei verso i campi di concentramento, a ritenere gli ebrei in primo luogo i «deicidi» del Signore Gesù Cristo – possiamo stare certi che la dottrina ha anteposto se stessa all’umano e il ritualismo ha prediletto la discriminazione alla pietà. Padre Remo, perennemente combattuto su quanto autentica sia la «chiamata di Dio» alla sua missione di sacerdote, vive per anni l’angoscia di non sapere quale sia la Chiesa voluta dall’Altissimo. E quando, tra infiniti tormenti, si innamora di Rachele, una giovane vedova ebrea che strenuamente cerca di sottrarsi alla deportazione, comprende che l’unico Dio che può accogliere la sua «perdizione» è quello libertario, tollerante e infinitamente comprensivo di cui si fa rappresentante in terra padre Seán. Dovendo scegliere tra una totale dedizione all’uomo e alla vita, alla sua salvezza in quanto creatura di Dio e alla sua uguaglianza agli altri uomini a prescindere dal proprio credo – o viceversa, al contrario, a un’esistenza fondata solo sull’assurdità del sacrificio in vista della conquista del Paradiso – non ha esitazioni: se l’uomo è creatura di Dio, l’uomo vale più della dottrina e deve essere accolto a prescindere dalla dottrina. Un conflitto dostoevskiano, potremmo dire (non a caso Dostoevskij è tra gli autori di riferimento di padre Remo, insieme a Benedetto Croce, a Antonio Debenedetti e ad Alessandro Manzoni), che nel denunciare la complicità del papato con i crimini nazi-fascisti della Seconda guerra mondiale riporta anche all’essenza una delle fondamentali preoccupazioni dell’umano: si può produrre il bene altrimenti che assecondando quello che per le istituzioni ufficiali, ecclestiastiche o meno, è considerato male? Alcuni passaggi del romanzo lo stigmatizzano in modo piuttosto evidente. Il Dio misericordioso di cui avevo sempre sentito – scrive un vecchio Remo alla figlia di Rachele, Aida, dopo tanti anni dagli eventi – si era trasformato in un tiranno, e sembrava che un sacerdote non potesse servirlo degnamente se non avesse rinunciato alla letizia: obbedienza e mortificazione, solo quello contava. Ecco, purché esteriormente garantita, la fede «vaticana» prediligeva (e forse in parte ancora oggi predilige) gli atti formali a quelli sostanziali, la salvezza egoistica dell’anima individuale del credente alla salvezza altruistica, assolutamente reale e umana in sé, di altri individui di credo diverso. E l’amore? Quanto può essere inviso l’amore a Dio, se è nel disegno stesso di Dio che si dispiega la possibilità che esso si presenti in tutta la sua perentoria ineluttabilità? Rachele, una donna appartenente a quel popolo dal quale parte della cristianità invitava a tenersi a distanza, era entrata improvvisamente nella mia vita e, senza dire nulla di particolare, aveva lasciato un segno. Per cui Rodari è come se invocasse, insieme a tutti i credenti che non vorrebbero dover scegliere tra un clero eslusivista e un clero dannato, la possibilità di una sublime conciliazione tra la libertà umana di essere ciò che intimamente, naturalmente e ineluttabilmente siamo e quella di consacrare la nostra fede al Signore. “Libertà, madre Anna,” le dissi con un sorriso. “La libertà è la cosa più importante al mondo. Nessuna dev’essere obbligata a fare nulla. Il Vangelo è una proposta di vita, non regole da imporre.”

Su questo convincimento si fonda, da un certo momento in poi, tutta la vita spirituale e quotidiana, di fede e azione, di padre Remo. E ogni gesto converge verso tale orizzonte: non già salvare esclusivamente se stessi in attesa del premio celeste, ma salvare l’umano hic et nunc, qui e ora. Perché questo segno di accoglienza, di amore e di libertà, è probabilmente – così ormai pensa senza più indugi Remo – ciò che intimamente Dio vuole. E salvare Rachele, salvare sua figlia Aida, significa pertanto ottemperare alla massima volontà dell’Altissimo. Il romanzo di Rodari non è allora solo una ricostruzione storica del nobile eroismo dei pochi cristiani che misero a rischio la propria vita per salvare quella di questa o quella manciata di ebrei, ma è in primo luogo una sorta di J’accuse a qualunque «dottrinocentrismo» che dimentica dell’uomo, e quindi del cristianesimo fondativo, il dato essenziale: che l’uomo è creatura di Dio a prescindere da tutto e da tutti, che egli è sacro e santo semplicemente perché è uomo, perché in quanto uomo è espressione del divino e della libertà quintessenziale che il divino ha conferito all’umano. Che sia poi ebreo, cristiano, musulmano o quant’altro, non fa infine alcuna differenza.