Smara, la città del destino

C’è stato un tempo nel quale l’avventura poteva essere vera, tangibile. Una prova dalla quale potevi uscire arricchito, dopo aver creato ricordi che sarebbero poi diventati parte dell’essenza stessa dell’avventuriero come persona e, con gli anni, della cultura umana. Era un tempo nel quale esistevano davvero (e ancora) luoghi inesplorati, distanti, così alieni da assumere concretezza solo nel pensiero di raggiungerli ed attraversarli, magari per primi. È facile fare un confronto con la percezione che abbiamo del mondo oggi, raggiungibile, osservabile, assimilabile. Eppure, nella possibilità di svelare l’ovunque, nella nostra ubiquità potenziale digitale alla quale siamo assuefatti, forse manca quell’aspetto non solo misterioso, ma sfidante, omerico, formativo.
Il viaggio a Smara di Michel Vieuchange, narrato in un diario asciutto e crepuscolare che ha il retrogusto dell’impresa epica, porta questo. Il suo cuore, la sua essenza e il suo incredibile fascino risiedono in questo. Quando l’impresa che insegui con paranoica assiduità arriva a confondersi con il senso dell’esistenza – della tua esistenza – diventando la ragione costitutiva del tuo vivere, il mezzo unico di realizzazione, ecco che tutto acquista un senso: questo sembra dirci il giovane francese che nel 1930 si è spinto là dove nessun europeo ancora aveva messo piede. Dare un senso alla propria vita sapendo di averlo dato è una condizione rara e preziosa e Vieuchange sembra dirci, dalle sue febbrili parole scritte nelle gelide notti di poco riposo e nelle roventi traversate diurne del deserto tra Marocco e Mauritania, nascondendosi dalle infinite tribù belligeranti che non perdonano gli stranieri sulla loro sabbia e le loro rocce.
Michel Vieuchange, nato nel 1904 in Borgogna, nella provincia francese e trasferitosi in adolescenza nella Ville Lumière per ricevere un’educazione letteraria, nel 1926 presta servizio militare e finisce in un Marocco tanto aspro quanto affascinante e largamente sconosciuto. Se ne innamora perdutamente e negli anni successivi profonde anima e corpo – insieme al fratello minore Jean - nel progetto di un complesso viaggio per raggiungere una zona che oggi è il Sahara Occidentale (e all’epoca era un’area bianca delle cartine geografiche), e in particolare una città avvolta dalla leggenda, Smara. Una porzione di mondo che all’epoca definire pericolosa e probante era eufemistico; un luogo che in un’epoca di conquiste coloniali impedisce con la fermezza e la combattiva energia delle popolazioni (più o meno) nomadi che la abitano sia ai francesi che agli spagnoli di prenderne immeritato possesso. E d’altronde Smara è tutt’oggi l’unica città fondata da un Saharawi – un sahariano – e non da francesi o spagnoli nell’area.
Ma Smara per Vieuchange non è una semplice meta da raggiungere, è un idea nella sua mente e un obiettivo di crescita personale, una pietra miliare nella costruzione del proprio sé. L’anelito pressante e disperato con il quale il giovane francese, stremato dal deserto e dalle condizioni di vita alle quali è sottoposto affida alle pagine del suo diario di viaggio non solo la descrizione anemica degli episodi che si susseguono, ma anche e soprattutto la trasformazione che l’avventura produce in lui è una prospettiva che fin da subito porta il lettore lontano dai racconti epici e romanzeschi degli esploratori ottocenteschi.
Vieuchange è nudo nelle parole, a tratti telegrafiche, riflesso della fatica che lo attanaglia anche solo per muovere le dita per scrivere. Ma sotto all’involucro fragile che accusa i colpi della natura e i contrattempi degli uomini c’è la forza della volontà e del desiderio irriducibile. Non quello fracassone e pomposo delle avanguardie interventiste del vecchio continente, per dire, ma quello di una persona che nel progredire dell’odissea personale sente cambiare il suo rapporto con il mondo e il senso stesso del suo operare. Nel diario di Michel si legge di un viaggio, di un percorso iniziatico - «Finita Smara, lo sento, le nostre giovinezze (la sua e quella del fratello, ndr) saranno compiute» -, di un tragico deperimento che lo porta alla fine alla morte, ma, nel contempo, ciò che sfugge progressivamente al protagonista in termini di salute prende forma in un ideale più alto, in un senso dell’impresa che nella stessa forma del linguaggio stanco e sempre più rarefatto diventa peraltro man mano più incisivo e determinato. E alla fine il corpo diventa un mero mezzo per compiere ciò che dopo innumerevoli fatiche ormai ha assunto l’aspetto di un impresa epica e determinante per asserire il senso dell’esistenza: «nei giorni facili», scrive a un certo punto, dopo avere ormai raggiunto e abbandonato Smara, sempre più prossimo alla fine, quella vera - «questo nostro corpo fragile che ci tiene tanto occupati – la nostra ricchezza -, che consideriamo con stizza, rimpianto, amarezza perché deperisce (…) questo bene, questa fortuna che si esaurisce ogni giorno. Qui (è) mero strumento per l’azione da compiere. Conti soltanto come tale, come i soldi per un acquisto. E ciò che si acquista non può essere dissipato – messo in cassaforte per la nostra esistenza mortale».
Smara - Taccuini di viaggio di Michel Vieuchange è un libro che ha attirato molte attenzioni da quando è stato pubblicato la prima volta dal fratello nel 1932, le pagine intense e scarne che trascinano il lettore nella tragica – eppure sommessamente trionfale – avventura hanno poi affascinato numerosi lettori e intellettuali nel corso degli anni (Claudel, Mauriac, Aragon), per giungere ad oggi in una(quasi) nuova edizione (Ed. Settecolori, 2024) che preserva in un formato minimale ma molto curato tutto il sapore e le atmosfere aride del viaggio nell’ignoto del giovane francese. Un esempio autentico di avventura e introspezione che ancora – e forse soprattutto – oggi è emozionante e arricchente (ri)scoprire.