Lo sguardo di un bambino che rende ridicolo il nazismo

Sei nomination ai prossimi Oscar: miglior film dell’anno, sceneggiatura non originale (del regista Taika Waititi liberamente tratta da un romanzo del 2004 di Christine Leunens), Scarlett Johansson come non protagonista, montaggio, scenografie e costumi. Jojo Rabbit è forse il titolo meno noto tra i candidati di quest’anno ed anche il più anomalo. È infatti una commedia surreale e fiabesca, un parodistico racconto di formazione su un tema drammatico: il nazismo e la sua propaganda contro gli ebrei. Parte della critica si è appassionata al film di Waititi (autore neozelandese di padre maori e madre ebrea di origini russe, famoso in particolare per il cinefumetto Marvel Thor: Ragnarok) per l’insolita combinazione tra linguaggio «leggero» e contenuti. Che poi così insolita non è, basti pensare al classico di Chaplin Il grande dittatore (citato) o a La vita è bella di Benigni e Bastardi senza gloria di Tarantino. L’intuizione vincente di Jojo Rabbit sta forse nell’aver scelto di ridicolizzare il nazismo in un’epoca smemorata come la nostra, in cui fioriscono imprudenti nostalgie estremiste.


Il film è centrato sul punto di vista del bambino del titolo. Dieci anni, biondo e impacciato, Johannes detto Jojo, nell’ultimo anno di guerra è infatuato di propaganda. Sempre in divisa, piccolo nazista zelante, frequenta con entusiasmo un campo della gioventù hitleriana e si è creato un amico immaginario che è il Führer in persona (caricatura stralunata, interpretata dal regista). Jojo è un solitario, bullizzato dai soldati che tanto ammira e che gli affibbieranno il nomignolo di Rabbit (coniglio) quando non riuscirà, come gli è stato ordinato, a rompere il collo a un coniglietto. L’amorevole mamma (Scarlett Johansson) è spesso assente (fa parte della resistenza) e Jojo scopre nascosta in soffitta una ragazza ebrea poco più grande di lui, che ama le poesie di Rilke. Conoscendola meglio, comincerà a valutare con sguardo diverso il mondo nazista da cui era ammaliato. Intanto, avanzano i russi, avanzano gli americani e la guerra finisce.

Il racconto è delicato, i colori spesso pastellati, l’atmosfera irrealistica. Su tutto aleggia il tono surreale di un racconto che, come rilevato da più parti, fa pensare a certo cinema di Wes Anderson, in particolare alle bizzarrie del suo Moonrise Kingdom. Il giovane interprete britannico, qui al debutto, Roman Griffin Davis, con gli occhi sgranati non è mai lezioso, accanto ad una Johnasson fin troppo eterea. Sfocati Sam Rockwell (che offre un’interpretazione molto più di spessore in Richard Jewell di Clint Eastwood, in contemporanea sugli schermi) e Rebel Wilson, virago nazista esagerata e fracassona. La sceneggiatura presenta situazioni di non detto e non spiegato, ad esempio aleggia la figura di una sorella morta, che forse il piccolo protagonista sovrappone alla ragazza ebrea. Ma quel che non convince del tutto – va bene giocarsi il plot in commedia, ma ci sono anche passaggi tragici – è la mancanza, salvo verso la fine, di sfumature di commozione autentica. Sembra che il film sia stato costruito con gli ingredienti giusti ma a tavolino.