L’ultima trionfale avventura dell’indomito Indiana Jones
Era il 2008 quando, dopo quasi vent’anni di assenza, il più famoso archeologo del cinema tornò nelle sale, passando per il Festival di Cannes, con Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo. Un ritorno divertente ma non privo di criticità, da un uso eccessivo degli effetti speciali digitali a una trama che palesemente non aveva messo d’accordo i due padri artistici del personaggio, George Lucas (produttore e soggettista) e Steven Spielberg (regista). Quattro anni dopo, Lucas ha venduto la sua azienda – e con essa i diritti di Indy – alla Disney, mentre Spielberg, rimasto a bordo solo come produttore esecutivo, ha ceduto la regia del quinto episodio, anch’esso fuori concorso sulla Croisette come quindici anni fa, al collega James Mangold. Un passaggio di consegne motivato, forse, anche da un dettaglio di non poco conto: come ripetuto più volte da chi ha lavorato al progetto, Indiana Jones e il quadrante del destino (nelle sale ticinesi dal 28 giugno) è il lungometraggio con cui il professore di archeologia, interpretato come sempre da Harrison Ford, si congeda definitivamente dal pubblico.
Siamo nel 1969, e tutti sono su di giri per lo sbarco sulla Luna. Indy, ora ufficialmente pensionato, viene contattato dalla figlioccia Helena Shaw (Phoebe Waller-Bridge), che non vedeva da anni, riguardo al presunto ritrovamento di un oggetto misterioso, un quadrante che sarebbe stato costruito da Archimede in persona e che sarebbe dotato, come sempre in questi film, di proprietà non del tutto naturali. E loro due non sono gli unici a interessarsi a quell’aggeggio: sulle sue tracce c’è anche un tale Jürgen Voller (Mads Mikkelsen), scienziato nazista con cui Jones ha già avuto a che fare tre decenni addietro. E la rivincita potrebbe alterare per sempre il corso della Storia… Non c’è più Spielberg alla regia, dicevamo, e la cosa si nota: pur essendo un capacissimo esecutore di scene d’azione (come abbiamo visto, ad esempio, nei suoi due film dedicati al supereroe Wolverine), James Mangold non padroneggia del tutto quel gusto per le avventure della vecchia scuola, con una parte centrale un po’ faticosa che mette in scena peripezie varie senza un vero senso dello stupore. Ma poi, a compensare, ci sono il prologo, ricostruzione filologica di quella che sarebbe stata un’avventura inedita di Indy qualche decennio fa (con Ford digitalmente ringiovanito – benissimo – e Mikkelsen che in alcune inquadrature è quasi la copia sputata di un altro memorabile nazista, quel Toht che diede del filo da torcere al nostro eroe nel primo film), la prima macrosequenza ambientata nel presente e tutta una parte finale che unisce passato, presente e futuro sottolineando l’importanza di tutti e tre gli elementi. «Non sono gli anni, amore, sono i chilometri», diceva il professor Jones ne I predatori dell’arca perduta, nell’ormai lontano 1981. Ecco, lui di chilometri ne ha fatti parecchi, ed è giusto che quelli rimanenti d’ora in poi siano fuori campo, lasciando a Ford la possibilità di salutare il suo personaggio preferito come vuole lui, con un ultimo trionfo. Imperfetto, ma pur sempre un trionfo.