Lupe Vélez, quell’amore impossibile nella Hollywood dei sogni

Chi legge gli articoli di Tommy Cappellini su queste pagine non ha bisogno di sapere che scrive benissimo, parole scelte con precisione, costruzione delle frasi calibrata e mai banale: tutto è esatto e tutto scorre. E ci si diverte. Agli altri consigliamo di scoprirlo leggendo il suo primo romanzo, Rigor mortis per Lupe, pubblicato in questi giorni da Gabriele Capelli.
È un testo seducente, ma non solo per lo stile. C'è una storia, quella di David, che in realtà è la storia di tutti noi quando la vita è germogliante e le foglie sono ancora tenere. Cappellini ci sprofonda proprio in quel momento, crudele e magico, in cui l'amore fa lo sgambetto facendoci ruzzolare a terra: un amore acerbo, è vero, più proiettato nel mondo interiore che nella realtà tangibile. Ma non per questo – o forse proprio per questo – meno potente, tirannico e beffardo. Perché, di solito, un sentimento di tal fatta punta troppo in alto: mica alla compagna di banco o alla cassiera del bar. Mica, nel caso specifico, alla pur attraente cugina Susanna che su di lui un pensierino se l'era fatto. No, già che si palesa, l'amore di David punta all'impossibile: a una star con mille uomini ai piedi. A Lupe Vélez, insomma, icona della Hollywood degli anni Quaranta, attrice vertiginosa e magnetica – lo dico per chi come me lo ignorava – che è realmente esistita e davvero, in vita, aveva provocato sfracelli sentimentali (un solo marito, nientemeno che Johnny «Tarzan» Weissmuller e molti amori, tra cui Gary Cooper, e tanto vi basti). Toglietevi lo sfizio e andate a cercare su «Google immagini»: la Vélez è uno di quei casi in cui il bianco e nero esalta un viso irresistibile non privo di una certa malinconia, così ben colta dalla pittrice Barbara Nahmad nel dipinto realizzato ad hoc in copertina al romanzo. Non c'è bisogno di dire altro. O forse sì, un piccolo sfizio: a quando una retrospettiva su di lei al Festival di Locarno?
Ma torniamo alla storia, ambientata nell'estate seguita allo sbarco in Normandia: era il 1944. Se sei un adolescente e vivi con un padre taciturno (ebreo laico e vedovo, tutto preso dal lavoro) e una zia bigotta che ritiene Beverly Hills poco più di «un lupanare», il pensiero di una donna come Lupe può impossessarsi del tuo animo in modo totale. Anche perché David vive, come tutti all'epoca, letteralmente circondato dal sogno di Hollywood. E non conosce Lupe solo dalle foto conturbanti che si beve in segreto sulle riviste: ha la fortuna, o forse la sciagura, di entrare fisicamente in contatto con lei («mi accarezzò la testa, sfiorandomi appena i capelli che portavo corti»). E certi contatti, a quell'età, sono quasi fatali. Vivono tutti e due – il ragazzino innamorato e la diva di Hollywood, in quella California dove tutto è soggiogato da Hollywood, macchina onirica fin da allora, soprattutto allora.
Metteteci poi il confronto-scontro con gli amici, le scorribande in bicicletta, l'irrompere delle prime scosse erotiche adolescenziali e il «disastro» è presto fatto. Lottando contro i sensi di colpa e cercando di controllare le pulsioni nascoste della vita che erompe, l'illusione di David si colora di speranze, l'incertezza cede il passo al coraggio. Fino a quando non bisognerà fare i conti con un colpo di scena improvviso che segna, probabilmente, la resa dei conti di David con i propri tumulti. Come succede con tutti gli amori impossibili.